Al CUC “Sempre amore”, di e con Federica Santoro: solitudini che si toccano, tra case chiuse e professori badanti
CAVA DE’ TIRRENI (SA). Due giovani prostitute dipendenti da una “casa chiusa” del futuro prossimo venturo, un professore siriano di filosofia, costretto dalle contingenze politiche ad andare via dal suo Paese ed ora a lavorare come badante e “pulire il culo delle persone ricche”. E tanta, tanta musica …
Solo loro i quattro protagonisti di Sempre amore, la pièce teatrale andata in scena al CUC il 31 marzo (con replica il 2 aprile) scritta, diretta e recitata da Federica Santoro: una rentrée molto significativa per lei, che, anche se vive a Roma, è cavese superdoc, di origine e di formazione.
È figlia d’arte di Raffaele Santoro, avvocato di professione ma attore per passione (con Mimmo Venditti), oltre che creativo performer esistenziale nella vita quotidiana, e di Rosa Salsano, insegnante di professione, ma anche lei cresciuta sulle tavole di scena di Mimmo Venditti, dove tra l’altro ha esordito anche la stessa Federica, ancora poppante, nella cesta-culletta di “Mio marito aspetta un figlio”.
Da adolescente, Federica ha scoperto in sé notevoli doti come artista e come cantante ed ha studiato e si è formata sia nel Gruppo del Liceo “Marco Galdi” sia alla “corte” del Maestro Michelangelo Maio, con cui ha interpretato anche dei musical show, in primis il bellissimo Mamma Lucia, dedicato alla nostra magnifica madre dei caduti, simbolo della maternità universale.
Sulla scia, in un progressivo affinamento della voce e della personalità scenica, tante serate anche come solista, nei locali del territorio.
Quindi, il gran salto a Roma, per studi più approfonditi e tentare il gran salto di qualità. Pur dovendo superare ostacoli di varia natura, sono venuti momenti di stimolo e di soddisfazione non indifferenti. Primo tra tutti, la partecipazione, il 21 gennaio 2011, a I Raccomandati, la trasmissione di Carlo Conti che vedeva dei big lanciare dei giovani emergenti ed esibirsi con loro. E, rivedendo con gli occhi della memoria Federica che canta accanto ad Orietta Berti, senza per niente sfigurare (anzi…), Io ti darò di più e Tu sei quello, canzoni difficili ed impegnative, ci scorre ancora oggi un frizzante brivido di emozione.
Tornando allo spettacolo al CUC, esso rappresenta il segno di un’ulteriore evoluzione artistica, accompagnata da una positiva consapevolezza delle proprie possibilità di “show woman multitasking”, alias di artista e autrice eclettica.
E spicchi considerevoli di talento in maturazione si notano a più livelli nella pièce.
Innanzitutto nella scelta dell’argomento. Una trama minimalista, ma efficace nella sua semplicità. Le due ragazze trascorrono con l’amico musulmano, e non è la prima volta, la domenica, giorno di riposo anche per loro. Il loro pranzo e la loro compagnia vengono interrotte da una telefonata di Carlo, il “datore di lavoro” della casa chiusa, che chiede di offrire una prestazione straordinaria per un cliente importante. Dovrebbe andare Cécil (Domenica Di Sanzo), ma poi al suo posto si “immola “Nina (Federica Santoro), che ha capito quanto pesi all’amica l’interruzione e quanto può assorbirla lei. Ma, al ritorno, ha un crollo emotivo… Poi, per fortuna, il senso dell’amicizia avrà la meglio.
Una trama del genere, nonostante la durata breve di soli quarantacinque minuti, richiede un impegno registico ed attoriale notevole.
I tre attori sono stati convincenti e sono riusciti a comunicare, col detto e col non detto, l’anima dei personaggi. In particolare, Olmo Mazzoni (Amal), pur se italianissimo e lui stesso esuberante, ha conservato un accento orientaleggiante senza mai eccedere, come se avesse lui stesso ascendenze oltre il Mediterraneo: ed alla fine è apparso ben plausibile come personaggio “altro”.
Domenica Di Sanzo (Cécil), molto raccolta in se stessa, col corpo prima che con le parole ha trasmesso la voglia di non rinunciare a coccolare la propria sensibilità, nonostante che col corpo, prima che con le parole, sia costretta nella vita a trasmettere tutt’altro che sensibilità interiore.
E Federica, con le parole, con i silenzi, con il canto e con un non facile equilibrio tra femminilità ostentata e cuore imprigionato, è riuscita ad interiorizzare efficacemente il personaggio, che, come diremo, è forse il più complesso della pièce.
Dal punto di vista registico, invece, nonostante la capacità di mantenere con calma le fila della narrazione, è emersa qualche piccola ingenuità: ad esempio, la lunghezza, eccessiva nonostante la musica, del prologo iniziale con l’imbandimento senza parole della tavola, oppure la lentezza un po’ statica di alcuni movimenti, soprattutto degli attori non recitanti. Efficaci invece i silenzi, che bene esprimono lo stato d’animo più profondo, e la loro interazione con la musica, a creare atmosfere e definire gli stati d’animo oltre la superficie.
Come dicevamo, l’opera offre particolari spunti proprio per l’argomento, il testo e le tematiche ad esso sottese.
Innanzitutto, la piccola coalizione di tre persone che, in modo diverso, sono emarginate e come tali soffrono l’insoddisfazione per una condizione che, ad essere ottimisti, si può sopportare solo non lasciandosi rubare la speranza. La pièce diventa, allora, in piccolo, una specie di “giornata particolare di scoliana memoria”, quando venne rappresentato nell’Italia fascista anteguerra l’incontro tra una casalinga ed un gay. Ed è significativo che in questo terzetto ci siano due emarginate donne e italiane doc ed un migrante esterno e musulmano.
L’amicizia tra loro però è solo un piccolo palliativo rispetto alla solitudine umana, sociale ed esistenziale che tutti e tre soffrono, con consapevolezza diversa, sulla pelle e nel cuore.
Amal (Olmo Mazzoni) è un musulmano ben diverso dallo stereotipo che ci viene costantemente trasmesso e che, più o meno giustamente, ci rende tremanti e diffidenti. Citando il Corano, esalta l’uguaglianza tra uomini e donne, frammenti del creato a pari titolo, si mostra tollerante sia confrontandosi con mentalità diverse (troppo libere o con troppo poca dignità le due ragazze?), sia di fronte ad una scenata dell’amica Nina, aggressiva e apparentemente lesiva della sua dignità di uomo. E, nonostante siano dieci anni che vive in condizioni di estremo disagio, non si è fatto rubare né la speranza (il suo nome significa proprio speranza) né il desiderio di provare “sempre amore”. Ma il senso di solitudine emerge forte dalle sue parole quando si raccoglie nel suo dolore o quando parla della condizione di esule con toni da malinconia universale, per cui una volta perse le proprie radici ogni posto è uguale per portarvi il tuo doloroso fardello.
Cécil sembra apparentemente la meno travolta dalla cognizione e dalla percezione del dolore. Forse perché anche lei non rinuncia al sogno di un’utopia, come quella che, nonostante la professione ed oltre la semplice scopata, possa scattare la molla dell’amore tra lei ed un uomo, ad esempio il suo datore di lavoro, con cui lei esce a volte.
Ma, così facendo, è la più forte o la più fragile? La pièce da questo punto di vista ci lascia il dubbio irrisolto, essendo incentrata di più sull’irruenza e la capacità di scendere in campo, anche esistenzialmente, di Nina e Amal.
Già, Nina. È proprio lei il personaggio più controverso, più complesso, più coinvolgente. Non a caso Federica questo ruolo lo ha riservato per se stessa: e si è affidata in buone mani.
Nina è la prostituta che di fronte ad Amal si vanta di avere scelto lei il suo mestiere mentre lui non ha scelto l’esilio, però ci accorgiamo che alla fine anche la sua scelta è tutt’altro che soddisfacente e quindi è una scelta subita ad opera di un’umanità che mostra ben poco della sua umanità verso la puttana o il migrante che pulisce il culo ai ricchi.
Nina è la donna vissuta, ma ancora inseguita dal bisogno di sogni e bambole dell’infanzia e come tale ancor più dilaniata nel contrasto tra ideale e reale. È la lavoratrice che con apparente disinvoltura rinuncia alla sua domenica per non farla pesare troppo all’amica, però quando torna a casa si rinchiude in un mutismo esplosivo prima di scatenare un pianto lacerato e lacerante. È la chiacchierona che interloquisce con più forza nelle discussioni, fosse anche per chiedere il basilico al posto dell’origano nel sugo della salsa al pomodoro, è la persona che nello sfogo non lesina né rabbia aggressiva né parole lesive, è la passionale che non rinuncia a cantare le sue emozioni. Ma il canto le esce dall’ugola dolce e sommesso, come una ninnananna dall’impossibile rassicurazione o un’emozione che sa tanto di aggrovigliato groppo alla gola. E sa anche umiliarsi di aver umiliato, e chiedere scusa senza chiedere scusa, solo addolcendo i toni o dando appuntamento alla prossima settimana, con l’aria rassegnata di chi comunque è consapevole di dover volare basso per sempre.
Uno spettacolo senza possibilità di luce, allora?
Non diremmo, perché per ognuno dei personaggi Federica autrice ha delineato della autodifese o delle più o meno realistiche vie di scampo. Ed anche perché il finale, con quell’appuntamento malinconico, è anche la ripromessa di un’amicizia che, nella solidarietà tra emarginati, rimane un’irrinunciabile ancora di salvezza. Ma anche, e forse soprattutto, perché c’è lei, la musica. La quarta protagonista. Che nelle note avvolgenti, soffuse, teneramente malinconiche e intimamente tenere, che siano quelle classiche del Duke Ellington o quelle originali di Francesco Ponticelli, ci immerge in una dimensione lacerante sì, preoccupante sì, ma anche tanto ricca dentro.
Quei tre personaggi non sono pietre di scarto: sono volti veri, vivi, emozionati ed emozionanti. Con la musica dentro o alla ricerca della musica perduta. E a cui avrebbero fortemente diritto, perché amano la vita ma la vita non riesce proprio a ricambiarli. E tanto meno la società.
È un grido di dolore, allora. Ma anche un invito ad una nuova umanità. Improntata ad una speranza irrinunciabile: sempre amore, appunto …
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