Al Ristorante Arcara piatti d’Amore nella Cena di San Valentino. E i ritmi del Cuban Trio aiutano il sangue a bollire

CAVA DE’ TIRRENI (SA). La figura di San valentino e la Festa degli innamorati non nascono dal puro seme odierno del consumo, ma hanno radici lontanissime nel tempo e sono comunque tra le più diffuse nel mondo.

Il Vescovo Valentino, di Terni, è infatti un martire cristiano del II-III secolo, decapitato alla bella età di novantasette anni per la sua opera di evangelizzazione e di promozione della famiglia cristiana, in particolare per aver unito in matrimonio una giovane cristiana con un ufficiale pagano, poi convertito. Da allora è considerato il protettore degli innamorati. Insomma, un santo che ha perso la testa per due giovani che avevano perso la testa uno per l’altro. Ricetta perfetta.

Si è progressivamente arrivati ai nostri tempi e ad altri tipi di ricette: quelle delle cene a lume di candela (oggi anche a lume di smartphone…) per coppie in vena romanticherie di tutti i generi, dal sospiro sognante al guardonismo virtuale all’happy sexy militante.

Non poteva mancare a questa festa il Ristorante Arcara di Cava de’ Tirreni, che sotto la nuova gestione di Nicola Villano e della moglie, la cubana Loipa Valdes, si sta specializzando in serate tematiche “food-show” (Cuba, Mediterraneo, cetara, Brasile, etc…), con sventagliate di cibi al bacio e musica o spettacolo secondo argomento. Stasera, per accompagnare i baci mescolati ai cibi, è in scena il Cuban Trio, che inonderà la serata di coinvolgenti ritmi afrocubani con pepate spruzzatine di pezzi afrocubonapoletani.

Alle 21,30, come da consuetudine, si parte.

Antipasto ricco mi ci ficco.

In apertura, veramente deliziosa la minestra di farro all’ortolana, impreziosita dall’inserimento di tocchettini di melenzane. Il farro è un cereale che viene da lontano (nei testi antichi relativi ai popoli mediterranei è sempre presente, a cominciare dai libri ebraici per finire al grande poeta latino Orazio) ed unisce l’utile al dilettevole, perché contiene molte proteine e fibre e poche calorie. Per di più è buono e non sfigura assolutamente di fronte a quelli che oggi sono ancora i suoi fratelli maggiori, cioè il riso e l’orzo.

Dal semiliquido della minestra al morbidamente solido dei bocconcini salati. Tra questi, il tortino di verze e la parmigiana di zucchine, una grande della tradizione ed una novità. Della parmigiana, stasera cucinata ottimamente alla maniera classica con le zucchine (come si fa con le melenzane), c’è poco da dire: è “una di noi”, un’amica del palato che fa parte integrante della nostra identità campana.

Ad onor del vero, però, bisogna dire che, se è tutta nostra la parmigiana di melenzane o zucchine con pomodoro, provola &Co., il tipo di pietanza è presente, con altri ingredienti, diversificati, in tutte, o quasi, le regioni italiane, tanto è vero che il nome evoca l’origine emiliana, con il richiamo alla città di Parma. Un’origine indiscussa, a meno che non si voglia dare credito a chi la fa derivare dal siciliano parmiciana, che è l’insieme dei listelli che compongono una persiana e che quindi descrive la struttura della pietanza. Ma anche in questo caso si andrebbe lontano da quella Napoli che poi l’ha santificata.

Ricco e saporito anche il tortino di verza, con le verze utilizzate come involucro, tipo lasagna, secondo un uso frequente in molte zone del mediterraneo, più che da noi in Campania, dove le verze si preferisce utilizzarle come accompagnamento di minestre, soprattutto col riso (anche nel Nord Italia si fa così, vedi la storica cassooeulalombarda)). Bene ha fatto allora lo chef a stimolarci proponendolo come involucro, con provola e besciamella, ottenendo un amalgama morbidamente saporito, con giustissimo equilibrio tra dolciastro e salato, solido e molle.

Ad accompagnare questo tris d’assi, un gustoso involtino di melenzane in stile parmigiana, con il tocco originale di pezzi di speck, e bocconcini di polenta con keddar, il famoso formaggio duro inglese. Anche qui, un bel connubio di tradizione e novità: infatti, se l’involtino di melenzana è oramai quasi un classico, lo speck è altoatesino, il keddar è inglese e la polenta sembra, almeno dalle nostre parti, ancora “roba del Nord polentone”. Eppure dovremmo ricordare che nella cultura passata la polenta di cereali era una delle componenti essenziali di tante cucine povere. Ancora oggi, a Napoli, la polenta fritta è un classico dei bocconcini da strada o degli sfizi prepizza. Bene ha fatto lo chef a ricordarcene l’essenza.

A chiusura degli antipasti, poteva mancare un caldissimo e sfiziosissimo scazzuoppolo? Oggi è il più diffuso ed amato bocconcino, una di quelle pietanze che possono addirittura caratterizzare il successo di una pizzeria, poco meno della pizza stessa ed un po’ di più delle patatine fritte, Lo scazzuoppolo è napoletano doc, nato come è a Materdei, da un’idea del pizzaiolo Antonio Starita, che trovò il modo di utilizzare al meglio e secondo napoletanità pommarolara i pezzettini residui di pasta della pizza. Oggi, per lo scazzuoppolo la pasta si fa apposta: i residui non basterebbero assolutamente…

Gli antipasti oggi costituiscono il cuore e la veste di un ristorante e più che “anti” sono essi stessi dei pasti. Il primo e soprattutto l’eventuale secondo sembrano quasi un di più. Ma il piatto di pasta, anche se si è pieni, si gusta sempre con piacere. Quando poi è fatto di mezzi paccheri con ben tirato ragù di carne di manzo, il pacchero merita sempre un abbraccio per lo chef, che nel nostro caso ha aggiunto un tocco non usuale, profumando la salsa con polvere di timo. Un odore intenso di erba aromatica e medicinale, che arriva al palato come protagonista, non come retrogusto. A noi è piaciuto, ma ci rendiamo conto che è un matrimonio rischiosetto, che potrebbe anche dividere.

Originale, ma tradizionalmente mediterraneo, il secondo primo piatto, un bianco dopo il rosso del ragù. . Base pugliese, con le classiche orecchiette, salsa di zucchine morbidamente insaporite in deliziosa vellutata e rafforzate da pezzetti di salsiccia Non propriamente un omaggio alla Signora leggerezza, ma promozione a pieni voti da parte di Mr. Gusto.

Il secondo piatto giunge a stomaco oramai imbottito più di un involtino. Bocconcini di carne con porcini, noci e uvetta: non i più teneri del mondo, ma la salsa è originale e ben saporita e comunque l’insieme serve a ricordare che a San Valentino non si devono dimenticare i piaceri della carne…

Già, i piaceri della carne fanno parte del dolce della vita, e non a caso subito dopo arriva a tavola uno sfriccicante e cremoso millefoglie con panna e frutti di bosco, a chiudere la parte mangereccia della serata, che però continua ancora per oltre mezz’ora con rombanti rumbe del Cuban Trio. E non solo rumbe, ma ritmi avvolgenti di vari tipi, nel gusto pieno della musica a tutto campo, con divertiti e divertenti assolo e con una dolcemente scatenata nenia finale, al ritmo scatenatamente dolce di ripetuti e cadenzati Aye Aye Oba Oba, che da una parte evocano lo spirito del mondo dall’altra smuovono il sangue con le variazioni tonali e la partecipazione collettiva..

Poi, tutti a casa… o, dato il clima della festa, dove porta il cuore. Dalla cena a lume di candela (o di smartphone) il cammino forse porta dove si spegne la candela (ed anche lo smartphone, speriamo), per una conclusione degnamente romantica.

Una conclusione da gustare a lungo a lungo. Magari, ricordando che lo strano anagramma della parola San Valentino è: ‘na sveltina? No! Giusto! In fondo, il santo va … lentino e non va … sveltino.

Buoni amori a tutti!


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