Rileggiamo Talora nell’arsura della via del poeta Camillo Sbarbaro tra sorprendenti affermazioni: “Basta con Verga”, “ Leopardi non è un poeta” !

Mi verrebbe da dire, un po’ polemicamente, alzi la mano chi “conosce” il poeta Camillo Sbarbaro. Quanti sono coloro i quali hanno letto le sue poesie, “sanno” della sua poetica, del suo vivere “sofferto” e molto vicino a noi più di quanto si possa credere. Eppure in questi giorni, “qualcuno” ha riscoperto una sua poesia,” Talora nell’arsura della via” dall’apparente tema in sintonia con l’opprimente caldo di questa nostra estate. Ma questa poesia è molto, molto altro e di più e di un attualità sorprendente benché scritta più di cento anni fa (1914). Testo notevole nel nostro Novecento Italiano egemonizzato in quegli anni da un Dannunzianesimo dilagante.

Talora nell’arsura della via

Talora nell’arsura della via
un canto di cicale mi sorprende.
E subito ecco m’empie la visione
di campagne prostrate nella luce…
E stupisco che ancora al mondo sian
gli alberi e l’acque
tutte le cose buone della terra
che bastavano un giorno a smemorarmi…
Con questo stupor sciocco l’ubriaco
riceve in viso l’aria della notte.
Ma poi che sento l’anima aderire
ad ogni pietra della città sorda
com’albero con tutte le radici,
sorrido a me indicibilmente e come
per uno sforzo d’ali i gomiti alzo…

(da Camillo Sbarbaro “Pianissimo” Edizioni La Voce, Firenze 1914)

Camillo Barbaro, poeta dallo stile asciutto, secco, lontano, molto lontano da qualsiasi  compiacimento estetico, qualsiasi retorica letteraria. Stile quasi subìto dal poeta anche al di la della sua stessa volontà e consapevolezza; si sentiva quasi “costretto”  a scrivere “quel qualcosa” che gli urgeva dentro. Stile che meglio non avrebbe potuto rappresentare la sofferta presa coscienza del dolore di vivere, sofferta crisi esistenziale che attanagliò il suo animo come quello di un altro grande poeta ligure Eugenio Montale. Il poeta, l’uomo deve smemorasi per continuare a vivere come in questi splendidi versi.

Per una sintetica analisi connotativa del linguaggio, proporrei di dividere questa poesia in tre strofe di cui le prime di quattro versi ciascuna: tutte e tre le strofe terminano con l’uso della figura retorica della Reticenza ovvero i puntini sospensivi sostituiscono quanto è facilmente intuibile. Tre pure sono le Similitudini presenti ai vv.9/10, v.13 e vv. 14 e 15 laddove in ”i gomiti alzo” può riscontrarsi l’uso della Sineddoche.

Nel confronto col linguaggio denotativo, la poesia sembra scindibile in due atmosferiche poetiche: la contrapposizione tra Città e Campagna e la contrapposizione tra Realtà e Sogno, il tutto legato da un anello di congiunzione che è dato dalla funzione del Tempo.

La Città è rappresentata da “arsura della via”, “ ad ogni pietra della città sorda”. La Campagna invece da “un canto di cicala, “ visione/di campagne prostate nella luce”, “ gli alberi e l’acque/tutte le cose  buone della terra”, “ l’aria della notte” , “com’albero con tutte le radici”. Come si può intuire hanno valenza negativa: l’arsura e la sordità della città, mentre valenze positive hanno il canto di cicala, la luce delle campagne (laddove , in campagna, diventa luce quello che nella vita cittadina è arsura); gli alberi e l’acque (contrapposte quest’ultime all’arsura della via e la pietrificazione della città sorda contrapposta al muoversi dell’albero con tutte le radici); il termine sorda poi chiama in antitesi “il canto di cicala”.

La sfera poi del Reale e del Sogno è data dai vv. 1/2 (Reale) contrapposti ai vv.3/4 (Sogno-Visione) e ancora i vv.11/12 (Reale) contrapposti ai vv.13/15 (Sogno). L’anello di congiunzione, dicevo, è dato dalla presenza del Tempo espresso in voci inequivocabili: dal “Talora” inteso come: a volte accade che… si passa al “Subito” in contrapposizione a quanto prima accaduto, attraverso “l’ancora” e “Un giorno”  (squisitamente riflessione- sensazione temporale) al “poi” finale per una decisione che non lascia possibilità di dubbi: volare come un uccello pur sentendosi un immobile albero, volare sradicando dal suolo le proprie radici che sanno di prigioni.  

E’ questo dolore per ciò che fu e non è più, per quanto l’uomo con la sua “civiltà” la sua urbanizzazione, sta togliendo a se stesso, per un recupero non nostalgico né estetizzante  della natura, per un afflato umano con “tutte le cose buone della terra” che fa di questa poesia una “nostra” attualissima poesia, cosi travagliati da questa società contemporanea che sembra distruggere irrimediabilmente “gli alberi e le acque” (come sta a dimostrare lo stravolgimento meteorologico di questi anni, dal caldo siberiano, alla desertificazione di ampie parti del pianeta, allo sciogliersi dei ghiacciai con disastrosi fenomeni alluvionali, …) e “tutte cose buone della terra” quelle cose che “bastavano un  giorno a smemorarmi” . Smemorarsi, attenzione, non perdita della memoria, ma recupero di memoria storica e psicologica attraverso l’identificazione con la Natura (uomo compreso) affinché il nostro vivere non sia o diventi vivere “da ubriaco” annebbiati dall’alcool del presunto benessere moderno, e lo”stupore sciocco”per l’improvvisa , ormai sconosciuta, salutare “aria della notte” sul viso. Sentirsi “alberi con tutte le radici” pronti al volo e non lasciare che l’anima aderisca “ad ogni pietra della città sorda”.

*****“Basta con Verga”. “ Leopardi non è un poeta” !*****

Certamente il tema centrale di questa poesia non è il caldo eppure credo che un caldo eccezionale possa anche contribuire ad alcune esternazioni molto, molto discutibili:

Basta insegnare Verga nei licei, non ne possiamo più. Si legga piuttosto il mio “Va dove ti porta il cuore” ha sentenziato la scrittrice Susanna Tamaro (23 maggio c.a.). Inattuale Verga? Non direi proprio. Basterebbe solo ricordare il racconto Rosso Malpelo per un doloroso confronto con il detestato fenomeno del bullismo.

E un paio di anni la poetessa Patrizia Valduca, compagna per molti anni di un altro poeta, Giovanni Raboni, affermò: “Leopardi, è stato un filosofo, un bravo filosofo, ma certamente non è stato un poeta! Era troppo intelligente per essere un poeta, un poeta deve essere stupido ogni tanto e lui non lo era. Scriveva in prosa e poi andava a capo…” “ Descrivendolo così: “Un gobbo di un metro e quaranta che mangiava solo gelato invidioso di Monti”. Offensiva, terribile gratuità!

E per sostenere la tesi che Leopardi non è un poeta, declamò alcuni versi del “L’Infinito” confrontandoli con alcuni versi di una poesia di Pascoli, “L’Aquilone “ concludendo tout court : “Ecco questo è un poeta vero! Poverino Leopardi voleva intensamente essere un poeta ma …. “ Fatta salve l’opinione di ciascuno, mi sembra poco ortodosso da parte della poetessa Valduca mettere a confronto due poesie, scritte l’una nel 1819 (Leopardi aveva 21 anni) con l’altra scritta nel 1897 (Pascoli aveva 42 anni) dimenticando, forse, “la Stessa” che tra le due composizioni vi è uno spazio temporale di circa 80 anni. E che anni: l’intero Ottocento! Ed è proprio certa la Signora Valduca che la lezione del “mancato” poeta Leopardi ” non sia “servita” al “vero” poeta Giovanni Pascoli?

Amara conclusione: se la nostra Letteratura si appresta ad essere scritta e riscritta da “simili autori”, allora prenderò a leggere i romanzi di Liala e brucerò interi tomi di critica letteraria.


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