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Cento anni fa Montale pubblicava OSSI DI SEPPIA

E’  il 15 giugno 1925, a Torino esce “Ossi di seppia” di Eugenio Montale pubblicato da Piero Gobetti per le Edizioni di “Rivoluzione Liberale”. E’ l’anno in cui il Fascismo  firma leggi speciali e di contro Benedetto Croce prepara  il ” Manifesto degli intellettuali antifascisti” cui Montale aderisce.

 “Ossi di seppia” comprende ventisette liriche tra cui alcune  scritte negli anni 1920/25 accanto ad altre anteriori. Sulla genesi del titolo l’ipotesi che appare più verosimile è quella che il poeta si rifarebbe a quei residui calcarei di seppie che il mare trascina sulla spiaggia, essi diventano l’emblema di una vita ridotta a nulla, come cosa da scartare senza alcun valore. Raccolta che tra l’altro contiene, forse la poesia più nota di Montale “Meriggiare pallido e assorto”composta nel 1916, il poeta aveva solo vent’anni. Anno in cui usciva “Porto sepolto”  di Giuseppe Ungaretti.

Ossi di seppia, però, scuote poco l’attenzione della critica più influente. Eppure, in seguito, diverrà un caposaldo della nostra letteratura. Strumento  privilegiato e insostituibile nello stile di Montale, è l’uso del “Correlativo Oggettivo”. Quel “Correlativo Oggettivo” che vede nell’opera poetica di un altro grande della letteratura mondiale, in Eliot, la sua consacrazione.

Il grande poeta drammaturgo americano Thomas Sterans Eliot aveva fatto proprie alcune geniali intuizioni di un mediocre artista, un tale Washington Allston, che gli permisero di formulare il concetto di “Correlativo Oggettivo”. Eliot affermava che poiché nel disegno di un artista importanti non sono i nostri sentimenti, ma il disegno che dei nostri sentimenti facciamo, il solo modo di esprimere l’emozione in forma d’arte è trovare un “Correlativo Oggettivo”, in altri termini, una serie di oggetti, una situazione, un insieme di eventi che saranno la formula di quella particolare emozione, tale che quando siano dati i fatti esterni, i quali devono terminare in esperienza sensoria, l’emozione è immediatamente evocata. 

Il risultato in Montale è perfetto anche se a volte appare duro alla decifrazione. Suggestivo, affascinante, quindi ma difficile per l’uso originale del “Correlativo” attraverso  uno stile originalissimo fatto di  ardite invenzioni ritmiche-lessicali.  La Struttura Montaliana risulta essere un prezioso ordito di trame armoniche per immagini su immagini in una ricchezza evocativa che ha pochi raffronti nel nostro Novecento. Si deve risalire a Dante (accostamenti non solo per la predilezione che Montale aveva per Dante, ma anche per la lezione dantesca che, specie nelle figure “allegoriche” femminili come la Mosca o la Clizia, illumina la poesia Montaliana). 

Ma sono le cose, gli oggetti, che sono rivestiti di nuove significazioni spesso oniriche attraverso una perfezione icastica notevolissima. Montale, in Ossi di seppia, si spinge a una “lettura” ad esempio paesistica, autonoma, sorprendente per felicità di sintesi e acutezza d’indagine allegorica fino al limite di armonie metafisiche. Il lettore è a volte disperso in questo difficile inestricabile disegno Montaliano e finisce col sentirsi “fuori”, confuso in un mare “ermetico”. Da qui il concetto di poesia ermetica in Montale. Ma il suo è un ermetismo tipico, diverso da quell’Ugarettiano o ancor più da quello di Salvatore Quasimodo: ermetismo non di maniera, di stile, ma di contenuto ove per contenuto si deve intendere non astrattezza di contenuti trattati, ma lo “spessore” dell’indagine al limite, come detto, del metafisico, quindi distante da “quotidiano sentire”, attraverso un linguaggio poetico che non può non essere non quello che si conviene a chi partendo, appunto, dal quotidiano, dalle cose più semplici, vede (o riveste) queste ultime di potenzialità tipiche dello specchio, per una realtà che sfugge all’uomo per un disegno di cui nulla sappiamo se non di essere partecipi. Quindi l’oggetto diviene “oggettivo correlativo” di un’immagine avvertita ma non colta nel suo valore escatologico, valore che diventa il motivo della ricerca poetica.


E’ Il Canto della crisi esistenziale dell’uomo contemporaneo, della possibilità di vivere una Realtà di cui si è certi solo “
che non siamo” e di “ciò che non vogliamo“. Rapporto angoscioso tra l’uomo e la Realtà in piena sintonia d’ispirazione con quanto veniva “denunciato” da altri Grandi  della letteratura mondiale; Joyce, Proust, Musil, Pirandello, Svevo. Quest’ultimo, “scoperto” dal giovane Montale in un articolo del 1925, dette il via alla grande critica Sveviana puntando i riflettori sul dramma dei personaggi di Svevo e della loro “inettitudine” esistenziale.  La grandezza artistica di Montale è che lo stile non cede mai nell’improvvisazione, nella casualità: lingua ricchissima ed elegantissima: termini anche   di uso comune assumono vesti nuove e affascinanti, a essi sono affiancati termini eleganti, raffinati, proprio della grande tradizione letteraria italiana che, rivestiti di connotazioni inedite attraverso un Canto personalissimo fatto di originali costruzioni sintattiche, aggettivazioni, si mischiano a inventati neologismi per un risultato ultimo che è un elegante “gioco” perfettamente armonico, anche laddove si canta la disarmonia: ” Avendo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che mi circondava, la materia della mia ispirazione non poteva essere che quella disarmonia”. Così il poeta nel 1951 (Confessioni di scrittori: intervista con se stessi).

E da quella “disarmonia ” che lo circonda avrà origine il Canto della Non-Esistenza, della sua “Fenomenologia Negativa”, Poetica del Non. Poetica a cui Montale rimarrà fedele  durante tutto il corso della sua produzione ebbene recuperi (o tenti di recuperare) accenti di speranza (Memoria) che possono se non contrastare almeno lenire il “male di vivere” . La Memoria negli “Ossi” come appiglio,   quindi, come mezzo di sopravvivenza. Nessuna nostalgia di debolezze tardo-romantiche.
Come non citare a questo punto la lezione Proustiana? La realtà per Proust non è più vissuta direttamente, ma nella memoria, nella forza onirica. Nella “
Ricerca del tempo perduto” Proust si dibatte tra due poli: quelli del passato e quello del ritrovato che scandiscono il tempo. Montale vuole, più che “ritrovare” attraverso la Menoria, “trovare”. E in questo suo anelito  gli sono d’aiuto gli oggetti  fondamentali per la demarcazione artistica della sua poetica. Il poeta in questa profonda crisi esistenziale non ha alcuna certezza ontologica nessuna sicurezza escatologica, l’unica certezza la “Metafisica Non”. E gli oggetti diventano l’emblema di questa metafisica. Oggetti così appartenente convenzionali, umili , quotidiani (atmosfere in aria-crepuscolare), prendono vita, danno vita ai suoi temi.  L’affanno  dell’uomo ingarbugliato in queste  trame sconosciute, in questa”Fenomenologia Negativa”, è l’affanno di chi cerca “una maglia rotta nella rete/ che ci stringe, tu balza fuori, fuggi “ (Limine). Tu. Quel “tu” cosi usato da Montale, quel “tu”, quell’altro “io” col quale il poeta dialoga e al quale confida le sue pene e le sue nude speranze,  come quando si augura “talora ci si aspetta/di scoprire uno sbaglio di Natura,/il punto morto del mondo, l’anello che non tiene/il filo di disbrogliare che finalmente ci netta/nel mezzo di una verità “ (I limoni) . Illusione quindi nel momento catartico della Memoria salvifica: in “Ossi di seppia”, attraverso la memoria, i ricordi, di poter “recuperare” una vita vissuta ma solo un attimo . ” Cigola la carrucola del pozzo” e subito “si deforma il passato, si fa vecchio, /appartiene ad un altro…” (Cigola la carrucola).  Neppure  la Memoria può offrire possibilità di scampo e nelle “Occasioni” se ne ha la certezza ” un filo s’addipana “e “Ed io non so ci va e chi resta” (La casa dei Doganieri). L’uomo non sa e procede attraverso il Non, verso il Non , niente conosce se non quello che Non è e nulla vede  o si aspetta se non quello che Non sa e quello che Non si aspetta. Rifiuto quindi di ogni possibilità di salvezza, rifiuto di ogni forma di anelito teologico.
Ma proprio questa che viene chiamata”teologia negativa” di Montale riveste il Canto Montaliano di una forza che va al di là del finito,verso una collocazione metafisica dell’uomo. Una sorta di religiosità laica, ove ad esempio, la tristezza appare come divinità che sostiene il poco legame che Montale ha con la vita (Incontro), oppure la “divinità Saggezza ” come porto sereno ” Triste anima passata/ e tu volontà nuova che mi chiami,/tempo e forse d’unirvi / in un porto sereno di saggezza” (Riviere), Ma il clima di Riviere, su cui tanto si è discusso  come momento positivo Montaliano, non è che un momento. Tutto ricade  nell’abisso della Non -.Esistenza  e anche quegli avvenimenti , tragici e luttuosi che il Fascismo e la Seconda guerra Mondiale (Bufera e altro) che sembrano invitare ad una lettura “storicizzata” della poetica Montaliana, sono sommersi dalla “lettura esistenziale” del” male di vivere” che supera ogni contingenza, ogni respiro immanente.  Affermava Montale ” L’argomento della mia poesia (e credo di ogni possibile poesia) è la condizione umana in sé considerata; non questo o quell’avvenimento storico (Confessioni di scrittori: intervista con se stessi). L’uomo solo davanti allo “specchio” della Non -esistenza nel duro cammino della vita umana.

La Poetica Montaliana appare sostanzialmente unitaria senza un “prima” e un “dopo”, complessivamente fedele al Canto ispiratore laddove lo stile o i temi sembrano diversificarsi dello stile e dai temi generali come avviene per esempio in “Satura”, ove lo stile diventa più prosastico, discorsivo e l’ispirazione si presenta velata d’ironica contemplazione del reale. Ironia questa che non può, ascriversi a elemento “dissacratorio” delle tematiche del Non, ma ancora di più, accentua la drammatica verità della Non- Esistenza che permea tutta l’opera di Montale.

da Italian Poetry, 6 giugno 2025

Ricordo del regista e attore Alessandro Quasimodo, figlio del grande poeta Salvatore Quasimodo.

Ho incontrato più volte l’attore e regista Alessandro Quasimodo scomparso ahimè, in queste ultime ore. La prima fu nel 1990 quando lo intervistai per il mio spettacolo teatrale: “Ed è subito sera”. Omaggio a Salvatore Quasimodo (Sala Morelli, Palazzo Municipale, Amalfi, 29 dicembre 1990) in occasione dei novanta anni della nascita del padre Salvatore Quasimodo (Modica, 1901), l’ultima volta fu a Palazzago nel 2001.

Alla fine di quell’intervista gli chiesi: “Qual é la poesia di suo padre che ama di più?” Mi citò, inaspettatamente, un poesia che ha come tema la morte, ma una morte che ha nella natura umana la salvezza.

E’ difficile scegliere, ma forse la poesia che amo di più è “ Nessuno”. C’è tutto mio padre lì dentro: questo fanciullo che deve aspettarsi tutto da quello che lo circonda, alberi, insetti, da ogni cosa che ha cuore di tristezza, desiderio quasi di morte pur avendo paura della morte”.

Nessuno

Io sono forse un fanciullo
che ha paura dei morti,
ma che la morte chiama
perché lo sciolga da tutte le creature:
i bambini, l’albero, gli insetti;
da ogni cosa che ha cuore di tristezza.

Perché non ha più doni
e le strade son buie,
e più non c’è nessuno
che sappia farlo piangere
vicino a te, Signore.

(da Acque e Terre (1920-1929), Solaria, 1930)

Ciao Alessandro, che tu sia sciolto “da ogni cosa che ha cuore di tristezza”.

Di seguito, alcuni stralci da quell’intervista (da L’eco di Bergamo, 10 maggio 2001)

Mio padre si era sentito male verso le 10 del mattino e non essendoci ospedale ad Amalfi, si rese necessario trasportalo d’urgenza a Napoli; ma non fu possibile trovare né un ambulanza né un elicottero della Nato o della Marina di Napoli e neppure una staffetta motociclistica per fare strada: caricato su di un’asse da stiro, giù per le scale esterne dell’Hotel Cappuccini, mancante un ascensore tale da poter contenere una barella, fu trasportato a Napoli in taxi. Era il 14 di giugno del 1968, mio padre, Salvatore Quasimodo moriva poco dopo”.

E’ visibilmente turbato Alessandro Quasimodo nel raccontarmi quelle ultime ore di suo padre; ma questo sole della splendida campagna bergamasca, ove Alessandro, da Milano dove vive, viene ogni fine settimana a riposare dalle fatiche d’attore e regista, sembra voler allontanare quei tristi lontani ricordi.

E’ uno strano pomeriggio di uno strano maggio, tra sole già caldo e pioggia all’improvviso; ed è qui a Palazzago tra un verde magnifico, che Alessandro Quasimodo mi accoglie per quest’intervista in occasione del centesimo anniversario della nascita di suo padre, il poeta Salvatore Quasimodo, che cadrà il 20 agosto di questo 2001. Mi viene incontro sull’uscio di questa sua affascinante abitazione, un vecchio convento risalente al primi anni del ‘500. Tutto perfettamente restaurato.

Per prima cosa mi porta a visitare l’annessa Cappella. Sull’altare troneggia una bella tela del ‘700 con l’immagine di Santo Spiridione, a destra della porta d’entrata, mi mostra una piccola urna murata “sono le ceneri di mia madre”. Maria Cumani che il poeta sposò nel 1948, dopo la morte della sua prima moglie Bice Donetti. Alessandro ha voluto fermamente che la madre riposasse lì in quella piccola chiesa, nascosta, come in un perenne abbraccio, in quest’angolo verde di Lombardia dando corpo ad alcuni versi di suo padre: “ ho nascosto il cuore dentro le vecchie mura,/ per restare solo a ricordarti”…” in questa terra/ di pianura, i prati sono verdi/ come nelle valli del sud a primavera”.

Essere figlio di Quasimodo l’ha agevolato o forse le é pesato?

Mio padre ha influito nelle mie scelte professionali, nella possibilità che avevo di leggere molto, di andare a teatro precocemente. Tutto ciò mi ha portato ad amare il teatro e le opere letterarie. Passione che ho cominciato a coltivare da quando avevo cinque o sei anni: mio padre era allora critico teatrale del “Tempo”. Ma è stato ed è ancora molto difficile essere figlio di Quasimodo: nel Teatro, alla Rai, c’è l’idea che basta fare il figlio di… e gli esempi certamente non mancano…, ma io con tutte le mie forze ho cercato di liberarmi di questo: non voglio fare il figlio di nessuno. Io credo di avere un valore mio, personale”.

Alessandro, è da poco tornato dagli Stati Uniti dove presso la “Princeton University” si è tenuto un Convegno sulla Poetica di Quasimodo. Cosa prova lei, attore, a leggere le poesie di suo padre? Una legittima emozione o forse fredda professionalità?

Fredda professionalità, mai; assolutamente. Io sostengo che ho molti padri, non solo Quasimodo: c’è lo stesso impegno, la stessa partecipazione, la stessa emozione anche quando recito Pascoli o D’Annunzio: perché credo in ciò che recito; sono autori che non mi possono lasciare indifferenti, proprio come dei veri padri”

Uno dei più illustri “loci” quasimodiani é senza dubbio, “operaio di sogni” che è anche il titolo di un suo recente, applaudito Recital, in giro per tutta Italia. Suo padre, che poco prima di morire scriveva: ” ascolto volentieri le parole della vita/ che non ho mai inteso, mi fermo/ su lunghe ipotesi”, appare oggi, umile “operaio di sogni” o figura concreta di un uomo che ha ricercato la verità nel reale?

Quasimodo é un uomo inserito nel suo tempo che esprime ansie, aspettative, domande dei suoi contemporanei. Suo pregio maggiore, la coerenza con se stesso, a volte con aspetti contradditori. Quasi se non ci fossero! Sostenere le cose in cui si crede e accettare le sconfitte, le domande che non avranno mai risposta”.

1959, Premio Nobel. Molte critiche ma anche aperti consensi. In primis, quello di Carlo Bo: “Poeta della maturità che ha cantato l’amore dell’uomo e la fedeltà alla vita”

Il Nobel, Quasimodo, l’ha pagato duramente: invidia, faide e nemici che si è creato non volutamente e non appartenendo a clan letterari, non avendo le spalle coperte da nessun giornale … Ma si paga duramente questa tipo di solitudine”.

Quale fu, secondo lei, il rapporto di suo padre con la Fede. Lui comunista …

Quasimodo è stato un cristiano di sinistra sempre, era un uomo che non poteva non essere di sinistra. Nessuna meraviglia: egli ha cominciato molto presto questa sua ricerca religiosa. Fin dalla sua prima produzione c’è questa ricerca molto forte. Gli fu chiesto a chi si rivolgesse con il termine di Signore, Signore con la esse maiuscola: Gesù Cristo. Se c’è un interesse sull’uomo, a maggior ragione su un Dio che si fa uomo. In “Thanatos Athanatos” si domanda: la nostra sola certezza é la morte? La risposta è no: non può finire tutto li! E in un bel discorso fatto ad Assisi, affermava: “la preghiera è sempre poesia ma non sempre la poesia è preghiera”.

Chi è il poeta Salvatore Quasimodo?

Un poeta fedele sempre a se stesso pur se le esperienze della vita non possono lasciare indifferenti: l’incontro con l’amore, la guerra, la sofferenza, la soddisfazione di un premio, cose che possono influire, ma non determinano. Egli ha sentito di esprimere quello che aveva dentro di se, la voce che si levava dentro; non è Quasimodo, poeta che cambia e inizia un nuovo periodo. Semmai, se c’é stata frattura, c’è con le “Nuove Poesie” che risalgono all’incontro con Maria Cumani, mia madre. Nuove rispetto a quelle precedenti, come musicalità interna, come recupero di una classicità. Oreste Macrì parlò della sua poetica come“poetica della parola” e poi giudizi di Anceschi, Bo, o Gianfranco Contini che afferma che Quasimodo é uno dei più grandi poeti del 900”.

Non orme di parole usate. Un inedito di Antonio Donadio già dedicato a Papa Francesco.

Non orme di parole usate
(a Papa Francesco)

Nei fondali dell’anima

sconosciuto inaspettato moto

d’argilla rossa di sangue

e d’amore. Non orme

di parole usate.

 

 Piena la tua parola

come pane da mangiarsi piano.

 

Tempo primo d’ogni

nascente anima

in attesa di danze

per albe radiose

                                    Antonio Donadio

Bergamo, alba del 26 di dicembre 2013

 

Questo è un inedito inviato a Papa Francesco nel 2014 assieme alla mia traduzione della “Legenda maior”- Vita di San Francesco di San Bonaventura (Edizioni Paoline, 2006). Non senza sorpresa ricevetti un biglietto a firma di Mons. Peter B. Welles, Assessore per gli Affari Generali, col quale mi informava che il Santo Padre aveva “particolarmente gradito il premuroso gesto” e auspicava “che la grazia e l’amore del Signore continuino ad accompagnare e ad illuminare il cammino di fede e di testimonianza“ e m’inviava la Sua Benedizione Apostolica.

Ciao Papa Francesco e grazie del dono della Tua Parola come esemplare pane di vita spirituale e umana.

21 marzo Giornata Mondiale della Poesia 2025, “Il Principe del Pinocchio” di Antonio Donadio di Paolo Ruffilli

Luminosa invenzione fantastica di Paolo Ruffilli.


Il Principe del Pinocchio” – Illustrazioni di Ivo Avagliano – (Edizioni Progetto Cultura, Roma, novembre 2024) è una delicata opera in cui poesia e prosa si fondono in un racconto che è luminosa invenzione fantastica, di cui simbolo e faro è lo stesso Pinocchio evocato fin da subito nel titolo.

Fin dalla prima pagina ci troviamo immersi in una successione di circostanze e di fatti che, mentre si dichiarano nella loro tenera originalità, rimandano per profonda stratificazione culturale del loro autore alle favole cantilenanti, ai giochi musicali, all’esuberanza verbale di prove come quelle di Toti Scialoja e di Nico Orengo.

Il libro del resto, per ammissione dello stesso autore, va considerato come un omaggio a Gianni Rodari e alla sua “grammatica della fantasia”, l’arte straordinaria e magica di inventare storie di cui Donadio si dimostra felice continuatore in questo suo libro pieno di colorate sorprese.

Quando i Pesci impararono a sciare

Perché non facciamo cambio?”E il mare
andò in montagna e la montagna al mare.
E fu così che i Pesci impararono a sciare
e i giovani Fiori di prato a saltar tra l’onde.

La notte in cui nacque la Luna

I Ladri della Luce rubarono il Sole.
“Sarà il regno del Buio.
Saremo i padroni della Notte”. E fu così
che tutte le Stelle si fecero vicine vicine
sempre più vicine, le une accanto alle altre.
Era nata la Luna.

Quel matto di un Gatto

“Ti giuro che l’ho sentito abbaiare”
disse uno dei due giovani Mastini.
Quel matto di un Gatto
abbaiò festoso ai suoi due nuovi Amici.

Aulica testimonianza esistenziale in SEGN E ARTAJ SEGNI E RITAGLI di Maria Lenti.

Ho tra le mani l’ultimo raffinato testo di Maria Lenti: Segn e Artaj Segni e Ritagli, Pref. di Gualtiero De Santi, puntoacapo 2024. Un volume di poesie bilingue dialetto urbinese /italiano. Urge cosi per il non disattento lettore una doppia lettura. Ogni dialetto diverso dal nostro “spaventa”, spavento dato dalla forma a noi sconosciuta (e spesso visceralmente rifiutata), ma come afferma Andrè Martinet, (e ritorno così a miei ventun anni, alla mia Tesi di Laurea sul grande linguista), ogni lingua è funzionale alla comunicazione e pertanto non ci si può basare sulla forma, ma essenzialmente bisogna ricercarne il contenuto. E ritengo che questo principio debba approdare ancor di più nell’uso del dialetto. Esso, infatti, se si allontana dalla parlata dialettale spontanea, dalla genuina cultura indigena, ovvero se diventa solo strumento in contrapposizione alla cultura dominante, diventa distintivo settario ininfluente al processo culturale dell’intero Paese, se non d’ostacolo.

Prezioso quindi il suo uso e prezioso giunge questo doppio lavoro lirico del poeta Lenti che s’inserisce in quel filone di grandi poeti che hanno usato “ lo strumento del dialetto” come comunicazione: basterebbe solo qualche nome come Pasolini o come Zanzotto che auspicava: Il linguaggio ritrovi la sua integrità primigenia e a ciò, oltre ai linguaggi colti, contribuisce il dialetto” mettendo così al centro della sua poetica l’indimenticato amato uso del petel, particolare linguaggio a due, che le mamme trevigiane usavano per coccolare i loro piccoli. Quasi un SOS per una lingua italiana oggi sempre più “ anglofila”, confusa, approssimativa, a volte perfino gratuita!

E allora eccoci con Lenti in questo itinerario lessicale poetico. Al centro di questo lavoro è la Parola, antica, popolare, aulica, sofferente, financo insoddisfatta vincitrice, ma sempre viva, reale, vera a dispetto di tutti e perfino magica o velata a volte anche di malinconica ironia. Vis poiein che dall’interno si proietta all’esterno, ora in accettazione, rifiuto, analisi dell’esistente, spesso in costante contrasto pure nelle presunte accettazioni. E’ il mondo di dentro che vuole e deve uscire, malinconico, dubbioso ma pur sempre imperioso. Non è la realtà che detta la vita, e il nostro “sguardo” che dà vita e prende da esso la vita, qualunque essa sia. Esemplare la lirica d’apertura “Du’ parole /Due parole “ . “Rideranno per l’insistenza/ a mettere due parole in croce”. Chi può ridere, o peggio irridere, della fatica del disegno di “mettere due parole in croce”? E’ come chiedere di non respirare, di far tacere il ritmo del cuore: per il poeta, come si diceva, la parola è vita. Mai di nulla il poeta è sicuro, non detta certezze, è solo in un eterno dualismo con se stesso con il tutto che lo circonda “ su me sull’intorno/per un’incisione/che dica quel che non va/e quel che dovrebbe essere “ e la sua un’eterna ricerca vitale “ mi piace la mia giornata” dove ostacoli non mancano “ con il sole a piombo o senza”. E non c’è altra attesa che non coincida con la fine “finché non si spezza il filo” . E quella testimonianza montaliana del filo che “s’addipana” nell’’affannosa ricerca del “varco” .

E ben venga, poi, la filastrocca giaculatoria” Tacchina tacchina, vieni da me” (rivisitata da “Lucciola, lucciola”) nel lamento per il mancato illusorio ritorno dell’urbinata “Galnaccia galnaccia” che si lega in aulico pathos ben maggiore per echi da chanson de geste per l’amato eroe lontano e mai più ritornato.

Ed ecco ancora la cantilena da antiche credenze popolari come in “Non si sa mai” , a tema le castagne matte dell’ippocastano “ mettne una tle sacocc o tla cartella/per tiena distanti la tossa el rafredor la febra/ l’in fluenza/ ogni malanno/credenza cui non credo”. Ma una castagna matta finisce “(“dentro la mano chiusa nella tasca/per tutto l’inverno/live come un’eco/ non si sa mai) ”. Sublime il verso “lieve come un’eco”. Il poeta Lenti sa che non è vero che guarisce “ogni malanno” ma nel suo gesto “ dentro la mano chiusa”, è racchiusa la voce, anzi l’eco, che imperterrita eterna e lega tutti noi al nostro passato remoto o prossimo; è un’eco muta che non solo non può andar dispersa ma che ci deve accompagnare come presenza reale e costante da tramandare.

Non solo quindi il rimando al dialetto come recupero letterario e sociale ma come linfa vitale. Ricordiamo cosa diceva Tullio De Mauro: ” I dialetti sono preziosi. Sono come la campagna e la città è la lingua nazionale. Per avere condizioni di vita moderna e agiata che offre la città, non si deve, per questo, distruggere il verde e la campagna che restano elementi preziosi anche per la vita cittadina”. Insomma “coltivare “ i dialetti come cosa viva e insostituibile. Non posso non citare, in fine, il distico “ San Valentino” che trovo di una forza straordinaria “- L’amore s’è nascosto, a piangere/ – Dimmi dove, ché vado a consolarlo”. Versi che richiamano magiche atmosfere Tagoriane come da “Stray Birds”, oggetto di una mia riscrittura poetica di alcuni anni or sono. Ecco che nel giorno della festa di San Valentino, l’amore invece di essere gioioso e festante, declina tutto il suo dolore, non ha nulla da festeggiare, ma questa sua sofferenza non è palese “s’è nascosto, a piangere”. Pronto, in suo soccorso arriva il poeta che si offre di consolarlo seppure denunciando di ignorare il luogo dove esso si nasconde, forse, oramai nel cuore degli uomini induriti da tanto quotidiano dolore.

Antonio Donadio