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Regaliamoci un sorriso targato Stefano Benni
E’ piacevole, a volte, scegliere a caso un libro fra migliaia di titoli e, semmai dopo anni, sfogliarlo, rileggerlo. E così, senza essere spinto da motivazioni culturali, da ricerche o approfondimenti più o meno professionali, ma solo per concedermi un momento di otium, l’altro giorno, ho ripreso in mano un vecchio libro di Stefano Benni “ Ballate”. In tempi certamente non facili, giorni macchiati da indicibili storie di morte e sopraffazione, ingiustizie e dolori immensi, istintivamente, ho cercato, forse un sorriso lenitivo. Una poesia che voglio condividere con i lettori e che inquadra umoristicamente la condizione di una coppia di coniugi durane il corso degli anni. Le piccole cose, è un po’ più lunga di quelle che normalmente scelgo, ma ne vale la pena.
Le piccole cose
Le piccole cose
che amo di te
quel tuo sorriso
un po’ lontano
il gesto lento della mano
con cui mi accarezzi i capelli
e dici: vorrei
averli anch’io così belli
e io dico: caro
sei un po’ matto
e a letto svegliarsi
col tuo respiro vicino
e sul comodino
il giornale della sera
la tua caffettiera
che canta, in cucina
l’odore di pipa
che fumi la mattina
il tuo profumo
un po’ blasé
il tuo buffo gilet
le piccole cose
che amo di te
Quel tuo sorriso
strano
il gesto continuo della mano
con cui mi tocchi i capelli
e ripeti: vorrei
averli anch’io così belli
e io dico: caro
me l’hai già detto
e a letto sveglia
sentendo il tuo respiro
un po’ affannato
e sul comodino
il bicarbonato
la tua caffettiera
che sibila in cucina
l’odore di pipa
anche la mattina
il tuo profumo
un po’ demodé
le piccole cose
che amo di te
Quel tuo sorriso beota
la mania idiota
di tirarmi i capelli
e dici: vorrei
averli anch’io così belli
e ti dico: cretino,
comprati un parrucchino!
E a letto stare sveglia
e sentirti russare
e sul comodino
un tuo calzino
e la tua caffettiera
che é esplosa
finalmente, in cucina!
La pipa che impesta
fin dalla mattina
il tuo profumo
di scimpanzé
quell’orrendo gilet
le piccole cose
che amo di te.
(da Stefano Benni Ballate I canguri/Feltrinelli 1991)
Tralascio, questa volta, la consueta rapida analisi del testo. Mi limiterò solo a sottolineare che Benni richiama, umoristicamente, atmosfere gozzaniane, ma soprattutto fa il verso alle belle (non tutte) poesie di Prevert tanto amate da “romantici” giovani degli anni 60 e richiama alla mente i fidanzatini di Peynet.
Stefano Benni, umorista, scrittore, autore teatrale, poeta.Autore dallo stile inconfondibile che nella sua spiccata e forte satira alla società – nel 2015 rifiutò il Premio De Sica, in protesta contro i tagli alla cultura e alla scuola attuati dal Governo di Matteo Renzi- spazia da “richiami dotti” a neologismi a originali calembour. Tra i romanzi e raccolte di racconti, citiamo:Terra!, Feltrinelli, 1983;La Compagnia dei Celestini, Feltrinelli, 1992. Prendiluna, Feltrinelli, 2017; Bar Sport, Mondadori, 1976; La tribù di Moro Seduto, Mondadori, 1977; Il bar sotto il mare, Feltrinelli, 1987.Cari mostri, Feltrinelli, 2015.Tra le raccolte di poesie: Prima o poi l’amore arriva, Feltrinelli, 1981;Ballate, Feltrinelli, 1991.
Da leggersi: Il moto delle cose (Mondadori, 2017) di Giancarlo Pontiggia
“Più che il valore magico della parola poetica, la magia è nella parola. Quando la parola effettivamente trova e ritrova questa immedesimazione con la cosa, questa identificazione e non è più una cifra, o un segno convenzionale, ma è finalmente la parola, che significa la Cosa che veramente significa e che veramente la fa nascere, la fa nascere dal pensiero”. Così, Mario Luzi. E Giancarlo Pontiggia nel suo ultimo libro “ Il moto delle cose”: “ un libro che stai leggendo/ da troppo tempo, ormai, senti/ che i nomi si sgretolano, uno per uno, ostinati, / in polvere di suoni e di niente, e implori/ / un senso/ unico, forte, uno/ stupefacente prodigio che illumini/il buio, intediato, della mente,/la tua,” (Vita, ma cos’è la vita. E cos’è il fiele)”. Al centro del libro il rapporto fra la nominazione della parola e la Cosa, incomprensibile e misteriosa. L’unico vero accento che possa dar forza vitale alla conoscenza. Non alchimie orchestrate dalla volontà del dire al fine sterile o finalizzato a priori ma ricerca scevra da qualsiasi condizionamento estetico o letterario fino al limite del “segreto” che sembra scaturire e poi dissolversi ogni volta che il poeta principia il cominciamento della vera discoperta. Libro di grande interesse che ti prende e ti coinvolge o meglio sconvolge, fino a dettare il respiro stesso in un crescendo che diviene il Tuo credo al limite dello stesso tuo desiderio, inconsapevole nell’essere coinvolto, assieme al poeta, assieme a questi suoi versi, verso il cominciamento non della nominazione delle cose, ma della Cosa, la prima e assoluta. Nessun surrogato o interpretazioni, neppure artistiche ma Essa, l’unica. Ecco il fine: piena graduale conoscenza del nascituro che si snoda incessantemente lungo il fluire degli anni. Anni che nulla disvelano a chi non sa cercare a chi non vuol ascoltare e capire. E’ una nuova nascita, o meglio, un’ultima e totale renovatio.
E nascemmo
E nascemmo
alla vita che già c’era.
Le cose
c’erano, le tante, le inaudite
cose, di cui c’invaghimmo
a poco a poco.
E noi guardavamo
l’aria che luceva
e piove e nevi
e soli che stagnavano, tiepidi,
nelle mattine troppo
quiete.
E guardammo, un giorno, i nomi
le parole prime, scure
che dicono sì o no, che oscillano
tra le cose
(da Il moto delle cose, Mondadori 2017)
La consapevolezza di chi da nuovo giunto si aggiunge ad altre vite “alla vita che già c’era” fatta di tante cose di cui mai si era udito parlare (inaudite) come accettazione dell’essere catapultato in un mondo costruito da altri (di cui le cose son pietre d’angolo) che valga per tutti, anche per chi non ebbe modi e tempi per farne, ancora, parte. Ma il vivere quotidiano è lì e non ammette tentennamenti, né indugi; e il vivere si fa accettazione “ guardavamo/ l’aria che luceva…” nelle mattine troppo/quiete”. Ma la vera conoscenza, la vera vita, avviene nella scoperta, la consapevolezza, unica ed insopprimibile della Parola/Cosa che apre monti che affermano e negano nella affannoso oscillare “tra le cose”. Versi questi di una cifra esemplare scandita da un ritmo limpido, lineare, laddove serpeggia sottile l’impalpabile linea di una classicità che da remota si fa presente, di una presenza consapevolmente calata nella contemporaneità. Elegante, di un’eleganza quasi schiva, desiderosa di nascondersi per un anelito di unicità nel divenire poieis: “E piove e nevi/e soli ” l’iterazione della congiunzione “e” sapientemente legata a gruppi consonantici dalle medesime tre vocali: “i, o, e “modulati armoniosamente in un gioco ritmico magistrale.
Giancarlo Pontiggia, docente di materie letterarie presso un liceo milanese. è poeta, critico letterario, scrittore, traduttore. Presenza primaria in riviste letterarie e prestigiose antologie. Tra i suoi libri di versi: Con parole remote, Guanda, 1998 (Premio Montale), Bosco del tempo, Guanda, 2005 e il recente Il moto delle cose, Mondadori, 2017.
Da rileggersi: Il disperso di Maurizio Cucchi (1976) ristampato da Guanda
Nel 1976 esce “Il disperso” (Lo Specchio, Mondadori) a firma di un giovane poeta milanese Maurizio Cucchi. Testo che immediatamente consacra l’allora trentenne poeta tra le voci più interessanti e importanti del secondo novecento. Cosi scrive Giovanni Raboni in quarta di copertina: “Fedele ai propri temi sino all’ossessione, Cucchi ci dà con Il disperso, oltre che uno dei più sicuri libri di poesia di questi anni, un vero romanzo milanese, un repertorio di “disegni” urbani e suburbani….” A distanza di più di quarant’anni, nella recente ristampa (Tascabili Guanda Poesia, 2018) il poeta Valerio Magrelli riafferma l’assunto Raboniano:“Lenticolare e concentrica, la forza del Disperso rimane a tutt’oggi esemplare, nella sua intatta capacità di tradurre la fibrillazione psichica in parola poetica”. Oltre che “un vero romanzo milanese”, “Il disperso” appare come una recitazione in versi per una rappresentazione teatrale in cui il poeta è simultaneamente attore, regista e spettatore. Il lettore è catapultato, assieme allo stesso autore, su un palcoscenico che è sì la Milano di un tempo, ma la forza della traslitterazione poetica opera il miracolo: la vecchia Milano è lì, ancora viva, la si sente come cosa che appartiene a tutti per un’attualità atemporale. Cristallizzare il dato reale (e con esso i personaggi coinvolti) e nello stesso tempo regalargli il respiro dell’eternità. “Monte Sinai” è testo esemplificativo della vis poetica di Cucchi: attraverso una cifra stilistica volontariamente lontana da atmosfere liriche codificate, il poeta delinea un “idillio amoroso” tra due giovanissimi con un lessico “comune”, privo di letterarietà, ma con la forza del vero e dell’immediato regalando al lettore, come detto, la sensazione di essere lì accanto ai due innamorati. Al richiamo del prete (“ cosa fate/voi due alla vostra età,/lì seduti nel prato. E poi è proprietà privata”) nell’ingenuo e timido stupore (C’era davvero da sprofondarsi? O piuttosto da ridere e incavolarsi?) traspare il dubbio misto a ribellione, nel chiedersi delle norme del buon vivere (borghese) per un innocente rendez vous su un prato cittadino (“ma guarda tu,/che razza di imbecille. Si stava lì tranquilli. Chi faceva/ niente di male?...). Nel Disperso, oggi riproposto da Guanda con piccole variazioni rispetto alla prima edizione, la Milano di un tempo remoto si ritrova come un incantesimo ancora tutto da scoprirsi e viversi.
Monte Sinai
Non dico di no, un pochino, magari,
ci avevo anche pensato (ma, in fondo,
ero talmente poco sveglio…). Ma, poi, alla vista lassù in cima
di quel prete nero, mani sui fianchi, sguardo fiero (“ cosa fate
voi due alla vostra età,
lì seduti nel prato. E poi è proprietà privata”).
C’era davvero da sprofondarsi? O piuttosto
da ridere e incavolarsi? Resta il fatto che borbottando
ci siamo messi in tasca io e lei i nostri fazzoletti
e siamo scesi giù. E ancora non sapendo dove andare (“ ma guarda tu,
che razza di imbecille. Si stava lì tranquilli. Chi faceva
niente di male?…”)
(da Il disperso, Mondadori , 1976)
A questo libro – alla sua prima edizione – è legato un aneddoto deplorevole: nel 2011 ne trovai una copia tra un cumulo di cartacce destinate alla discarica proveniente da una Biblioteca Comunale di un paese bergamasco con adesivo e timbri resi quasi illeggibili. In seguito Maurizio Cucchi ,simpaticamente, sottolineò “questo mio salvataggio”. C’è da chiedersi come sia possibile che ci siano Biblioteche Civiche che periodicamente scartino libri anche d’indubbio valore. E’ di pochi giorni la notizia che a Cerveteri, il giovane sceneggiatore Igor Artibani tra un mucchio di libri che giacevano buttati (da un anonimo “lettore?”) accanto ad un cassonetto per la raccolta degli abiti usati, ha ritrovato una preziosa prima edizione de Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, classico tra i più importanti della nostra letteratura.
Le foto: Copertina della prima edizione ritrovata e “ringraziamento “ per il salvataggio.
Maurizio Cucchi (poeta, critico letterario, traduttore), voce tra le più autorevoli del panorama letterario italiano. Oltre a Il disperso (1976) citiamo: Le meraviglie dell’acqua (1980); Glenn (1982) Premio Viareggio; Poesia della fonte (1993) Premio Montale; L’ultimo viaggio di Glenn (1999); Per un secondo o un secolo (2003); Malaspina (2013) Premio Bagutta. Tra i romanzi: Il male è nelle cose 2005; La traversata di Milano 2007; L’indifferenza dell’assassino (2012). Curatela de Dizionario della poesia italiana (1983) e 1990) e, con Stefano Giovanardi, l‘antologia Poeti italiani del secondo Novecento ( I MeridianiMondadori, ( 1998).
I giardini della Minerva di Salerno
Fra i dieci parchi più belli d’Italia 2018, nei versi di Ferdinando Dello Iacono.
Invito a far un “viaggio”. Forse non è un andar troppo lontano o forse sì. E’ un piccolo viaggio “sull’erta ai giardini di Minerva”: è da lassù che si vede l’infinito, e oltre. Iperbole? Forse solo forza dell’immaginazione, forza degli occhi del poeta che ci fa da cicerone. Non è una diminutio delle ebbrezze naturalistiche e paesaggistiche che in questa parte alta di Salerno si possono ammirare, è solo l’incipit di un viaggio reale, ma soprattutto di un viaggio che senti nascere dentro. E allora ben venga l’invito del poeta …
Aperture
Ho salito fin lassù sull’erta
ai giardini della Minerva
fra gli afrori dell’erbe
che un silvatico dalla barba bianca
sistemò nell’orto romito dell’eremo.
Mi s’aprirono costiere
e l’immenso orizzonte di falce
protetto dalla tramontana
le agavi favoriva e le zagare
fra tetti mediterranei e solari.
Ferdinando Dello Iacono
( da Di/visioni d’amore – Liriche dell’età levante, Palladio (SA) dic. 2012)
Due strofe lapidarie di cinque versi ciascuna. Il poeta sale “fin lassù sull’erta/ai giardini della Minerva”, regno botanico millenario. “Rivede” l’antico maestro Matteo Silvatico (“un silvatico dalla barba bianca”) che nel 1300 volle su quell’erta istituire un Giardino Botanico primo esempio di orti botanici d’Europa. Da notare: oltre alla confacente assonanza erta/Minerva (I / II verso), l’iterazione al verso V della r e relativi gruppi sillabici (orto romito eremo) che conferiscono musicalmente un suono “chiuso” a suggerire l’immagine dell’uomo raccolto intensamente nel suo ruolo di scienziato, come rapito dalla natura e i suoi effluvi. Quasi atmosfera di un laico San Girolamo penitente. Ma ecco che nella seconda strofa i versi s’illuminano: è la luce della costiere o meglio delle “costiere” (quella amalfitana e quella che da Salerno si spinge fino a Paestum ), è“l’immenso orizzontedi falce”. Apoteosi del regno vegetale che incornicia questa parte di terra fortunata inglobando in essa in un vortice di vento ( “tramontana”) i segni dell’uomo (tetti mediterranei e solari) che divenuti un unicum con il tutto vanno a proiettarsi verso l’infinito.
Ferdinando Dello Iacono, nato a Palma Campania nel 1944, ma salernitano d’adozione. Poeta, stimato da alcuni grandi poeti del ‘900 come Alfonso Gatto e Salvatore Quasimodo, è anche saggista e autore teatrale Tra le sue pubblicazioni, ricordiamo: Costiere, liriche dell’età calante (2012); Di/visioni d’amore, liriche dell’età levante (2012); Genialità & Scalogna. L’eterno di Napoli. Elegia per Sansevero (2013); Salvia. Un paese in esilio. Canto per Passannante (2013) e il recente saggio Al mio Leopardi detto Giacomo Taldegordo Francesco Salesio Saverio Pietro (2017)
Il fugace eterno attimo di gioia per un goal nei versi dell’indimenticabile Luigi Amendola
Quando due anni fa pubblicai il libro: Calcio d’autore da Umberto Saba a Gianni Brera: il football degli scrittori, Postfazione di Alessandro Bonan, Editrice La Scuola, 2016 (vedasi Vivimedia del 29 novembre 2016 servizio di Paola Valle ndr) dovetti, seppure a malincuore, operare una scrupolosa selezione. Avrei voluto inserire questa o quella poesia, ma la fedeltà tematica m’imponeva tagli ed esclusioni. Eppure vi era una poesia che avrei voluto assolutamente pubblicare, ma non mi fu possibile ritrovarla, confusa nel mare magnum di libri su libri, di fogli su fogli. E proprio in questi giorni dei Mondiali di Russia, orfani della nostra Nazionale, che inaspettatamente l’ho ritrovata:
ed eccomi sul campetto
illuminato a giorno,
una serata illune, a driblare
portiere e numero sette
ch’è arduo vincere e gioire.
Ma intanto stasera godo
questo goal segnato
e questa brezza mite,
la stretta dei compagni
a portiere battuto,
il cielo di stelle e marzapane …
Luigi Amendola
E’ una poesia “chiara”, di quel chiarore che si nutre di un’intima luce, quella propria dei poeti. Riflette l’attimo fugace ed eterno dopo una segnatura, un goal, in una partita giocata tra ragazzi “sul campetto /illuminato a giorno”, ma in una serata senza luna (“illune”)! Uno di quei campetti di periferia tipici degli anni sessanta e cosi cari a Pier Paolo Pasolini. Mi sarebbe piaciuto affiancarla a una poesia di Antonio Porta, (questa pubblicata), in cui regna un’identica atmosfera. Versi velati di un’inconsapevole malinconia (“arduo vincere e gioire”): un’altra crudele notte avrebbe avvolto i due poeti, scomparsi prematuramente.
Luigi Amendola, poeta e scrittore raffinato, morì nel 1997 a soli quarantasei anni. Era un amico, un caro amico. C’eravamo conosciuti a Roma presso il Centro Internazionale Eugenio Montale diretto da Maria Luisa Spaziani, frequentando alcuni dei più importanti poeti del primo novecento Mario Luzi, Giorgio Caproni, Luciano Erba, Andrea Zanzotto e anche un giovanissimo Valerio Magrelli. Fu per me un prezioso regalo essere suo amico. Ricordo di una sera in cui fui ospite a casa sua. Ci conoscevamo da poco eppure volle che mi fermassi a dormire, così spontaneamente. Dopo cena c’intrattenemmo a lungo a parlare, mi lesse anche alcune sue poesie: tra esse, questa, ritrovata in questi giorni. Scusami caro Luigi, per questa mia mancanza. A Luigi Amendola è legato anche il nostro Premio Badia. Nell’edizione del 1994, fu nella cinquina degli autori finalisti con il libro Carteggio del rancore (Mancosu Editore, 1993). Ricordo la sua gioia nel dialogare con gli alunni, la nostra passeggiata sotto i portici e la sua meraviglia: ” sembra di stare a Bologna”. Mi aveva promesso che sarebbe ritornato, semmai con un nuovo libro, …