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Tra liriche e saggi sul Covid 19 anche un libro di “fiabe al contrario” per sconfiggere il famigerato “ drago Covidone”

In questi quasi due anni di pandemia, tante le pubblicazioni sul Covid-19. Tutte, più o meno, originali e ricche d’argomentazioni e spunti degni di attenzione, tra cui:

Una furtiva lacrima. Poeti al tempo del dolore. Di Felice Edizioni, a cura del poeta e critico, prof. Vincenzo Guarracino che sull’interrogativo, mai così di stretta attualità, “Perche si piange”, “interroga “ un nutrito numero di poeti italiani, alcuni molto noti come Ottavio Rossani, Guido Oldani, Valerio Magrelli, Giuseppe Langella, Gilberto Isella, Paolo Fabrizio Iacuzzi, Franesco D’episcopo. Delicata e intensa è la “risposta” che ci viene dai versi dall’amico poeta pavese ma da molti anni residente a Cava de’Tirreni, Fabio Dainotti: per lui, la creazione poetica, è una compensazione al disordine interiore. Una poetica della memoria affidata al riemergere dei ricordi, sia gioiosi sia anche i più dolorosi.

Assai interessante è poi il libro Storia del Coronavirus a Salerno e in Campania, Typimedia, testo che di là dalla dolorosa attualità, è un prezioso tassello bibliografico per la storia ultra millenaria della città di Salerno. In esso l’autore, il dott. Romano, giornalista e scrittore, si sofferma anche su i primissimi tremendi giorni di pandemia che flagellarono sopratutto Bergamo e la sua provincia, richiamandosi, tra l’altro, anche all’esperienza vissuta dallo scrivente, cavese ma bergamasco d’adozione, ripubblicando alcuni versi sul Covid, scritti in quei giorni e pubblicati su La Repubblica e altri quotidiani.

Ma soprattutto voglio soffermarmi su un libro di fiabe, o meglio di fiabe al contrario: Lo gnomo blu contro il drago Covidone e altre storie, Il quaderno edizioni, scritte a quattro mani dalla poetessa Teresa Rotolo e dal notissimo prof. Franco Bruno Vitolo, instancabile, costante presenza nel panorama culturale non solo cavese e campano ma anche con frequenti presenze a livello nazionale. Il libro molto piacevole e divertente, impreziosito anche dalle deliziose illustrazioni di Chiara Savarese, si legge veramente tutto dì un fiato con il sorriso sulle labbra tanto da far quasi dimenticare il doloroso dramma che ha scaturito la fertile fantasia dei due scrittori. Ma quale la novità di questo libro? In questi ormai due anni in cui la nostra vita è stata crudelmente violentata dall’inaspettato mortale arrivo del Covid, tanto da far quasi scomparire sulla bocca un sorriso, uno scatto d’ilarità e di spensierata gioia, ecco che i bambini, apparentemente proprio i più indifesi e deboli, si mettono all’opera e diventano essi i portatori di un sorriso, quel sorriso rasserenante che solo le favole sanno da sempre regalare. Progetto nuovo e ardito il loro: far tornare il sorriso ai grandi e in primis a mamma e papà. E allora eccoli impegnati “al contrario”: saranno loro che racconteranno ai propri genitori delle belle, divertenti, magiche fiabe.

Quando ero più piccolo e avevo paura del buio, la sera, a turno mamma e papà si sedevano sul mio lettino e mi raccontavano fiabe, favole, leggende. Al suono delle loro voci dolci e morbide come la panna montata sula torta di cioccolato, mi addormentavo facendo sogni bellissimi in compagnia di elfi, gnomi, fanciulle fatate, folletti, maghetti. Ho deciso! Ora che sono loro un po’ spaventati e tristi sarò io a rassicurarli! Leggerò a loro una fiaba, la sera, prima di addormentarci, e poi parleremo insieme della storia che avrò raccontato io… E i sogni torneranno belli come prima! Non è magica la mia idea?”

Ti racconterò una bella storia del folletto Magi, lo gnomo blu contro il drago Covidone ! E vedrai il bestione come se la darà a gambe!”

E non resta, quindi, che unirci in questo concerto di fiabe con la speranza che sia di preludio alla vera definita fuga del famigerato “Bestione”!

Alfonso Vitale, un uomo e un artista che lascia un vuoto incolmabile

A metà dicembre del 2019, nel far ritorno a Bergamo dopo alcuni giorni trascorsi nella “mia” Cava, come consuetudine, mi ero affettuosamente salutato con Alfonso con la mente alla primavera dell’anno dopo: quando, ancora una volta, saremmo stati insieme per la presentazione del mio ultimo libro di versi “Il senso vero della neve” che Alfonso aveva impreziosito con un Sua opera originale (ndr vedi foto). Ma poi…il maledetto Covid e questo fulmine che mi ha impietrito. Queste lacrime stanno urlando che non può essere vero che il carissimo amico Alfonso in solo pochi orribili attimi di un afoso luglio ci ha lasciati per sempre. Alfonso Vitale, il pittore come tutti, ma proprio tutti, lo conoscevano e non solo a Cava. Esuberante, sempre pronto al sorriso, a un’amichevole stretta di mano, … Quanto potrei dire, scrivere, di Lui, … ma, ahimè, la mano non ubbidisce vinta da mille emozioni e da un dolore vivo e penetrante. Proprio non ci riesco.

E penso allora che migliore ricordo non possa esserci che ascoltare Lui, Uomo e Artista, in questa mia intervista/presentazione all’ampio catalogo d’arte (Alfonso Vitale nel segno del colore tra disciplina e sperimentazione, Gutenberg Edizioni, 2014) a corredo della Mostra Antologica per i quaranta anni di pittura (1974- 2014) tenutasi a Cava presso il complesso Monumentale S. Maria del Rifugio.

Intervista ad Alfonso Vitale

Sera di ottobre. Un umido ottobre. A Cava non è per niente una novità. Nello studio di Alfonso Vitale in via 25 luglio, mi accoglie un’ampia vecchia poltrona un po’ sgangherata, ma meglio di niente. Intorno decine di tela di un mare di colori, ultimi suoi lavori. Con il 2014, prossimo a venire, saranno quarant’anni di pittura. Per iniziare questa informale chiacchierata, un tocco di buona banalità di sempre: Come passa il tempo………..

Tu molto spesso hai affermato che per te e in te, l’uomo e il tempo sono due costanti inscindibili …..

Io credo che solo vivendo il tempo, si diventi uomo. Ossia per essere uomo, bisogna vivere il tempo. Vivere il tempo significa non solo viverlo con intensità, ma addirittura intervenire, intervenire sulla sua durata, ………

Lo guardo con malcelato stupore. Sorride e continua.

Non prendermi per pazzo. So che non si può intervenire sulla durata del tempo in modo concreto, oggettivo, ma lo si può fare …dal di dentro, ognuno può intervenire sulla “durata del suo tempo….”

Ossia?

Ossia senza restarne mai schiavo sia quando il tempo è scandito da momenti brutti sia dai momenti belli, piacevoli . Specie in questi casi perché è molto facile attaccarsi possessivamente a stati di benessere , di piacere, disposti a qualunque cosa pur di conservare o almeno prolungare tutto ciò. E questo ti rende schiavo.

Credo di aver capito

E questa schiavitù ti allontana dal tempo reale; ti porta in una dimensione irreale in cui tu hai paura di confrontarti con nuove idee, hai paura dell’incerto, del non risaputo prima, hai paura e basta! Questo significa anche invecchiare pur essendo giovani.

E l’arte come può aiutarti? O meglio: l’arte ti ha aiutato in questa lotta?

L’arte può molto. L’ho capito sin da subito, appena ventenne.

Sul muro campeggia una vecchia tela con una scritta: “Uomo, più volte rompi l’equilibrio, più lo ristabilisci, e più sei giovane e più sei libero” Gliela indico …

Ti riferisci a quel periodo della tua vita?

Annuisce. Devi sapere che un giorno dei primi anni ’70, davanti ad una grande tela, accidentalmente squarciata, nel silenzio assoluto del mio studio, iniziai a ascoltare i miei pensieri interagendo con essi: segnando e macchiando quello spazio infinitamente bianco e vuoto. Non so quando tempo sia passato. Alla fine avevo davanti agli occhi quanto ancora si vede lì alla parte.

Pensi di aver toccato, fermato, almeno per un attimo, il tuo sfuggente tempo interiore… ?

Scrolla le spalle.

Penso di sì, o almeno lo spero… Ed è così ogni volta …

La tua pittura viene definita tout court pittura astratta, eppure nei tuoi quadri affiorano qua e là elementi figurativi che fanno storcere il naso ai puristi dell’informale e al tempo stesso non appagano gli amanti del figurativo…. Ci spieghi il perché, a volte, di questa scelta che per taluni è ibrida e forse incomprensibile?

Son felice di questa domanda. Cercherò di spiegarlo. Ogni volta che mi accingo a dipingere, la tela mi appare come un spazio bianco, vuoto ed immenso, più delle stesse dimensioni della tela stessa. E così sono preso dal desiderio di intervenire su di essa, ma al tempo stesso sono assalito dalla paura di intervenire: tracciando anche una semplice retta, una linea, perché con essa avrei disegnato l’archetipo stesso di un frammento, di una forma che “venendo fuori, prendendo vita”, assumerebbe una significazione ben precisa, identificabile da tutti e per sempre. Ma così facendo la “chiuderei” nella sua stessa figurazione, rendendola “schiava” del suo significato.

Ti poni, quindi, l’obiettivo di dare vita, respiro autonomo alle forme,forme aperte, che non siano più significante di qualcosa ma che diventino esse stesse significato, referente di se stesse, perdendo così anche la statica rappresentazione figurativa ?

E’ quello a cui aspiro: la mia pittura non deve mirare alla staticità, a “così e per sempre” come inevitabilmente accadrebbe in un’ opera figurativa e allora, istintivamente, la rompo, la frantumo, la tratteggio tra spazi pieni e vuoti che ridanno movimento, emozione, vita. Allora mi assalgono emozioni forti incontrollabili: i colori si affiancano, si amalgamano, si contrappongono, esplodono in grosse macchie, in grossi spazi. Vanno su e giù cercando contrasto, armonia, equilibrio. Alla fine, credimi, sono esausto.

Quale il tuo rapporto con il territorio, la tua città?

Bello, ma non facile. Si sa che il posto più difficile al mondo dove vivere per un artista è proprio il luogo dove sei nato. Non solo per un pittore, ma anche per un musicista, un poeta….

Interrompo

A volte si vien visti quasi come dei fuori di testa….

Ma in definitiva sono soddisfatto. Ho avuto abbastanza consensi e qualificati, ma anche severe recensioni, diciamo, “accademiche” da chi crede di poter pontificare: la mia parola vale più di un’altra, anzi è l’unica importante e vera.

Questo, lo sai, non si può evitare. C’è sempre chi crede di capire più e meglio di altri…

Si, però io dico che se la critica è positiva, va benissimo, ma se si critica per criticare….quasi per partito preso… non è né giusto né intelligente specie per chi critica.

Devi convenire, però, che anche tra gli artisti c’è chi non è che un mediocre pittore e si crede un Pollok!

Dai, cambiamo discorso….

Come avvenne la nascita de “il cortile- centro d’arte e cultura”, in quei primi anni 70? (*)

Per le nostre ore lontane dalle aule universitarie delle nostre rispettive facoltà, pensammo che fosse necessario confrontarci, ascoltare ed essere ascoltati, noi tra noi e con gli altri fuori da noi. Ma non distanti da noi. Volevamo stringerci attorno ad un sogno.

Un sogno con al centro l’arte. L’arte che parte differenziando e differenziando unisce…

Ci voleva un luogo per riunirsi e fu trovato in un importante palazzo nobiliare del centro. Un valido aiuto, ci venne da uno dei proprietari, lo scultore prof. Franco Lorito, più grande di noi per età, ma giovane dentro come e più di noi. Insostituibile esempio di uomo e di artista. E fu cosi che intorno a me e Massimo De Lista, direttori de “il cortile” si strinsero alcuni giovani artisti tra cui il carissimo amico lo scultore Vincenzo Avagliano. E non solo cavesi.

Cosa si faceva al “Cortile”?

Sorride. Si faceva tardi, a volte molto tardi. Si parlava, ci si confrontava, si sognavano personali e mostre con nomi importanti. Che vennero: Schifani, Mirò, Fiume, Brindisi,… perfino alcune pubblicazioni d’arte,…. ma queste cose tu le sai bene. Un doveroso grazie ancora a te e un ringraziamento caloroso al critico prof. Mario Maiorino, che spesso firmava autorevoli testi critici delle nostre Mostre.

E mentre avevi preso ad insegnare, vennero le tue prime mostre, i primi importanti riconoscimenti ………. Quale i momenti più belli, più esaltanti?

Senza dubbio l’emozione per la mia prima personale al Club Universitario Cavese, poi, ovviamente il Premio Mondadori e l’esperienza didattica/artistica vissuta ad Helsinki …

E ora ti accingi a festeggiare i quarant’anni di pittura con questa Mostra Antologica…quarant’anni di vita, del tuo del nostro tempo….

Ritento, ma non cade nel tranello.

Il tempo? Quale tempo….? Devo ripeterti quanto detto prima?

Lascio lo studio. Ha iniziato a piovere. Non ho l’ombrello. Passo per Corso Principe Amedeo, dinanzi all’abitazione dove ho vissuto per tantissimi anni. E’ buio. Le luci fioche mi rimandano indietro nel tempo (o forse saranno state le nostre chiacchiere di poco fa). Mi butto sotto i portici, come facevo allora: il passo è spedito. Forse incontrerò Mimmi Apicella che mi venderà l’ultimo numero de” Il Castello” o Padre Melloni con cui mi fermerò a discorrere su Dante. Ecco, nella penombra dell’ androne del palazzo, in perenne attesa, il “nostro Cortile”….

Cava dei primi anni ’70. Piccola città dal glorioso passato che ancora riviveva in rivoli culturali, più o meno interessanti. Allora nella nostra città si stampavano, e si leggevano, due, tre periodici: “ Il Castello” dell’Avv. Mimì Apicella, ”Il Pungolo” del notaio Filippo D’0ursi e poi “Il Lavoro Tirreno” del giovanissimo Lucio Barone più altre occasionali pubblicazioni. L’immortale struscio serale dettava i tempi dei giovani e meno giovani, ma l’ozio non era pane appagante per chi avesse voluto “alzare la testa” dalle vetuste arcate. Nessun teatro ufficiale, ahimè, a Cava, eppure c’era – e c’è ancora!- un appassionato compagnia teatrale “Il Piccolo teatro al Borgo” diretto da Mimmo Venditti; il cineforum, presso il Convento di San Francesco con l’annessa Galleria d’arte “Frate Sole” dell’ottimo indimenticato padre Malandrino. Non unica: in via Atenolfi, “Il Portico” del futuro editore prof. Tommaso Avagliano e del maestro Sabato Calvanese. E poi, la prime radio private, più di una, e ben due emittenti televisive “Tele Cava “ e Canale 44” dalla vita brevissima per colpa di un maledetto fulmine.

Cava, sera di un piovoso ottobre del 2013 Antonio Donadio

In libreria: Tutto fu bello qui di Maurizio Zanon, Guido Miano Editore, 2020

Si perpetua ancora una volta l’Amore, quell’Amore impossibile anche da confessarsi. Il brivido ti annienta stordito. E con esso, la vita, quella di tutti i giorni che ti chiama, ti reclama: la pausa è solo semplice pausa, non può dettare legge né tempi oltre un fugace attimo d’incanto. E il poeta riprende a vivere, ma sul foglio veloce rivive quella Voce. Non altro da sé se non quell’esplosione di attimi. Attimi felici questi versi di Zanon, esplosioni che cesellano il vivere, aiutano a capire forse il dettato della propria vita e dei suoi simili, mortali viandanti: è come un amore clandestino che si scopre nell’evolversi dei versi … caduco quest’amore come un “muovere di foglie “… ma forte, coriacea è la figura dell’altra.

Sei la mia vita:

lo so non ci credi, mi guardi stupita

ed in questo muovere di foglie

non sei solo – dici – c’è sempre tua moglie.

E’ una lirica questa di una lievità e durezza insieme: quattro versi soltanto, dove lui, al suo diniego per “c’è sempre tua moglie”, è confuso, farfuglia qualcosa. Quell’inizio del terzo e ultimo verso “ non sei solo – dici –“ così spezzettato: quattro parole ad inseguirsi, (tre trisillabe e tre quadrisillabe), sonoramente ci regala il balbettare di un uomo che non sa cosa rispondere, quasi stupito che l’amante gli ricordi che ha moglie. E’ tutto come un soffio leggero di foglie portate dal vento. E’ la natura che fa da specchio e da testimone in un gioco di riflesse emozioni e sentimenti in queste liriche di Zanon. E in “Fiorito è il sambuco “ non è forse sconfitto anche il presuntuoso ragno che non può far altro che rifugiarsi in un buco “Scappa il ragno dentro a un buco” nell’esplosione del sambuco fiorito mentre la notte ha inizio con un magico momento d’amore: la luna insegue una stella, la più bella dell’intero firmamento? E’ l’esplosione della gioia di vivere che rende la vita bella, veramente bella. Quattro versi in rima dove la rima non solo ha funzione ritmica ma contenutistica, rima non formale ma sostanziale. La vita, la vita che traccia segni, disegni, tracce di sé dietro di sé: un semplice fazzoletto “accuratamente stirato/e smarrito/lungo i binari alla stazione” colpisce il poeta: certamente smarrito ma sorprendentemente stirato (rima in contrapposizione tematica). Ecco un semplice fazzoletto farsi specchio, testimone di un amore, di tutto un amore domestico. Così una piccola cosa detta agli occhi del poeta, al suo sentire, una storia come altre mille di cui non si conoscono né nomi né volti, ma così simili a noi. E il lettore ne rimane coinvolto. In “L’azzurra fuggevole estate”, poi, il dono di un alito di speranza per questi nostri angosciosi giorni.

L’azzurra fuggevole estate

Che luce traspare se il cielo è cupo

se il giorno non dona cose nuove

ma soltanto irrequietezza o depressione?

Ricordo allora quelle bianche vele al sole

quel caldo mare infrangersi sul molo, le voci dei ragazzi

appena sussurrate nell’azzurra fuggevole estate.

Non credo che sia difficile cogliere quanto attuali siano questi versi: primi tre versi in cui nulla di luce traspare se il cielo è cupo, se il giorno non regala più cose nuove, se in noi è solo ansia e apprensione. Ma il cuore ancor prima della mente si rifugia nei ricordi vitali di bianche vele al sole, del frangersi del mare, delle voci festose di ragazzi sussurrate, nell’azzurra fuggevole estate. Estate fuggevole come la giovinezza, versi che richiamano splendide atmosfere penniane. Ma il poeta tace il suo recondito desiderio: tornino, devono tornare ancora queste estati di bianche vele al sole e di mare e di risa di fanciulli.

Maurizio Zanon è nato nel 1954 a Venezia dove risiede. Laureato in Lettere Moderne, pubblica il suo primo libro di versi “Prime poesie” a venticinque anni. Costantemente attiva è la sua partecipazione a momenti culturali/poetici con stimolanti incontri con importanti poeti contemporanei come Diego Valeri, Giovanni Giudici, Andrea Zanzotto, Paolo Ruffilli. Tra le sue numerose pubblicazioni citiamo: Verrà l’estate (1980), Viale delle solitudini (1982), Epigrammi e altre poesie (1985), Poesie d’Amore (1991), La Bianca Alba (1999), Un girasole ho nel cuore (2004 ), Liriche scelte (2010), A ogni prima luce (2012), Luce campestre (2017), Tutto passa (2019). Alcuni suoi libri sono stati tradotti in inglese, francese, spagnolo, tedesco. Ampia e qualificata la rassegna stampa.

Duecento anni fa moriva Napoleone: dal libro di Vittorio Criscuolo (Ei fu. La morte di Napoleone, il Mulino 2021) all’incipit manzoniano dell’ode “Il Cinque maggio”

Napoleone “ presentandosi al mondo con l’aureola del martire” – sconfitto a Waterloo nel giugno del 1815 e dall’ottobre dello stesso anno esiliato per i suoi ultimi cinque anni di vita nella lontana e sperduta isola di sant’Elena in pieno oceano Atlantico Meridionale – “vinse l’ultima delle sue battaglie” ponendo così “il primo fondamento della leggenda”. E che Napoleone Bonaparte a dispetto di quanti, frettolosamente ed erroneamente, avevano ipotizzato che con la sua morte “sarebbe stato presto dimenticato” sia, invece, da quel fatidico 5 maggio 1821, divenuto figura leggendaria, è una delle affascinanti tesi che il lettore può ritrovare in un indispensabile libro appena pubblicato: “Ei fu, La morte di Napoleone, edito da Il Mulino”. Autore è il ch. mo prof. Vittorio Criscuolo, ordinario di Storia Moderna all’Università degli Studi di Milano. Al centro del libro il documento più importante sull’esilio di Napoleone e fonte insostituibile per le ricostruzioni storiografiche: il Memoriale di Emmanuel Las Cases che fu a fianco dell’imperatore nel suo lungo esilio. Il prof. Criscuolo, nativo di Salerno ma residente da anni a Milano, non è nuovo, tra l’altro, ad approfondimenti su Bonaparte (N.d.R. il giovane Napoleone, 1996; Napoleone, 1997; Napoleon, 2003.) In Ei fu, il professore si sofferma anche sull’eco che la morte di Napoleone suscitò in alcuni importanti poeti europei. Non solo sul “nostro” Manzoni che compose la celebre ode “Il cinque maggio” (su cui ritornerò fra poco). L’ode fu tradotta in lingua tedesca da Goethe e Alfhonse de Lamartine, giudicandola “perfetta”, disse che avrebbe voluto averla scritta lui. Molto significativa è, poi, una poesia scritta da Silvio Pellico, che pur molto lontano per orientamenti ideali da Napoleone, volle, da prigioniero nella fortezza dello Spielberg, ricordare il grande condottiero morto nella solitudine della lontana sant’Elena. Da sottolineare anche il capitolo che Criscuolo riserva alla filmografia napoleonica. Film solo in parte agiografici. Alcuni anche di pura fantasia come ipotizzare una “non morte” di Napoleone. Tesi che fu al centro di una sceneggiatura scritta da Charlie Chaplin nel 1936 ma mai realizzata. Il grande attore, ovviamente, avrebbe interpretato il ruolo del protagonista. Tra l’altro viene ricordato dal professore lo sceneggiato “Napoleone a Sant’Elena, prodotto dalla Rai nel 1973 e interpretato da Renzo Palmer per la regia di Vittorio Cottafavi e disponibile su Rai play.

Al libro, il Corriere della sera del 13 aprile ha dedicato una doppia pagina in Cultura a firma di Paolo Mieli che in modo articolato e ricco, introduce il lettore alla scoperta delle 228 pagine del saggio. Devo però segnalare la presenza in quest’ampio articolo di un refuso, uno svarione che questa mia rubrica di cultura poetica non può tralasciare. Scrive Mieli. “ Quando Napoleone morì, Alessandro Manzoni scrisse la celeberrima poesia il cui primo verso dà il titolo al libro di Criscuolo (Ei fu).” Un’inesattezza non solo formale ma sostanziale. Ei fu, infatti, non è il primo verso, come egli afferma, ma l’incipit del primo verso: “Ei fu. Siccome immobile“. Incipit presente fin dalla primissima stesura della famosa ode, riportata dal prof. Criscuolo e qui di seguito:

Ei fu: come al terribile
Segnal della patria
Tutta si scosse in fremito
La salma inorridita,
Come agghiacciata immobile
Dopo il gran punto sta.

Tale al tonante annunzio
Stette repente il mondo
Che non sa quando, in secoli,
L’uomo a costui secondo
La sua contesa polvere
A calpestar verrà.

Un incipit originale e dalla forza poetica straordinaria. Manzoni per indicare un uomo eccezionale come Napoleone Bonaparte, usa il “semplice” pronome personale Ei (Egli) di chiara derivazione dall’Ille latino (quel famoso). Non ne dice il nome. Per annunciare “questa” morte, gli basta una bisillaba Ei fu. Bisillaba che nella sua essenzialità scheletrica, tre vocali e una sola consonante, ”suona” come un sussurro, un soffio (suggerito dall’uso della consonante labiodentale “F”) leggero, appena solcato nell’attonita aria che il punto fermo posto alla fine tronca di netto. Fenomenale traslitterazione poetica: repentino e inaspettato è il passaggio dalla vita all’improvvisa morte. Infatti, non solo Manzoni ma l’Europa intera rimase sgomenta all’inattesa notizia della scomparsa di Napoleone. Questo fantastico, non che efficace, incipit manzoniano, mi porta a ricordare un altro incipit quasi simile: “ Si sta” in “Soldati” di Giuseppe Ungaretti scritta circa un secolo dopo nell’inferno della prima guerra mondiale:

Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie.

In quell’incipit “Si sta” è racchiusa la cifra del “dire poetico”. L’uso di quel bisillabo tronco (accento tronco in chiusura e iterazione/anafora della “S”: come di un temuto mortale sibilo di un colpo di moschetto), dà la rappresentazione ritmica della provvisorietà, del veloce accadimento di qualcosa d’ineluttabile. Il come che segue a fine verso, fondamentale l’enjambement, riveste l’aria di sospesa attesa che è soddisfatta, poi, dai versi seguenti “ d’autunno/sugli alberi/le foglie”. Versi che sono solo una rappresentazione scenografica della tragedia che incombe sui soldati. Immaginiamo, per un istante, che Ungaretti avesse scritto “stanno o stiamo”, certamente il concetto non sarebbe mutato, ma sarebbe cambiato tutto, non sarebbe stato un verso di pura Poesia.

Vittorio Criscuolo, nato a Salerno il 1951, ha conseguito la laurea in Scienze politiche presso l’Università degli studi di Roma “La Sapienza” nel novembre 1974 con voti 110/110 e lode, discutendo una tesi di laurea in storia moderna (relatore prof. Armando Saitta) su “Giuseppe Abamonti e il giacobinismo meridionale”, che è stata riconosciuta degna di pubblicazione. Dopo anni come assistente, assegnista e ricercatore presso l’Università romana si trasferisce a Milano. Attualmente ricopre la carica di professore ordinario di Storia Moderna e Storia dell’età dell’illuminismo e delle Rivoluzioni presso l’Università Statale milanese. Fa parte del Collegio del dottorato in “Storia, cultura e teorie della società e delle istituzioni” della medesima Università. Numerose le sue pubblicazioni che sono fondamentale punto di riferimento non solo per i suoi studenti ma anche per studiosi e appassionati di storia moderna.

Guarda il sole – mi dico – non sarà mica Pasqua?

Un giovanissimo ciclista ritratto in tutta la sua vigoria fisica in questa mia poesia tratta da un libro di parecchi anni orsono, mi auguro vivamente che possa essere il simbolo di questa nostra Pasqua così dolorosamente tormentata, anche quest’anno, dalla pandemia.

Che sia concretamente una Pasqua di totale renovatio, spirituale per i credenti per tutti umana e sociale.

(Stazione n 6)

“Guarda il sole – mi dico – non sarà mica Pasqua?”

Ride il fanciullo innamorato
all’ombra discreta della lunga quercia
a riposo dopo tanto pedalare
stride la catena per tanto moto ormai
silente quasi mormora incomprensibile.
Tutto è primavera da tempo o forse sempre.

Vola oggi più in alto il sole
ad abbracciare l’antico sapore d’aria
ubriaca saltellante senza vergogna
bambina ancora nel gioco di sospirosi zefiri
“e se fosse Pasqua davvero?”

Lascerò al rosato pesco profumato
un posto nel mio giardino tessuto di nuovo
di colori e soffice erba.

Nulla importa -mi dico- della zolla
fredda smorta che impudica s’offre
dalla cima del monte al viandante
che riempie occhi e suoni del lontano paese
addormentato oggi di luce risveglio
“domani smuoverò la mia zolla” lascerò
spazio e mente al mio fiorire
senza invidia né spiare di giardini oltre.

Lungo il sentiero riprende il giovane ciclista
la deposta bicicletta pronta a ripartire:
un colpo di reni e via. Scompare.
Andrà sudato sfrecciando nella catena brontolona
al ritmo gioioso: ”è Pasqua”.

Già mi attendono ormai non posso oltre
mancare. La dura zolla terrosa
attenderà domani giovani fiori piantati.

Antonio Donadio

(da “L’alba nella stanza” con nota di Mario Luzi, Book 1996)

Con i versi del poeta e amico Antonio Donadio da parte della Redazione un caloroso augurio di Serena Pasqua.