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“Ho abbandonato l’angoscia” di Antonio Avenoso
Ho abbandonato l’angoscia
Indolente.
Qui, nel giallo grano,
sprofondiamo.
Un rettangolo,
figlio di un tempo stretto,
va
tra le nostre sofferenze e Dio
Antonio Avenoso
Da “Un poeta ricomincia daccapo” Thauma Edizioni, Pesaro 2011 (Premio internazionale Villa Selmi 2012)
Il poeta traccia in modo veloce, essenziale, un attimo della sua vita. E lo fa “dipingendo” in un paesaggio reale (“giallo grano”), un paesaggio intimo, emozionale e ancor più, spirituale. Non interessa conoscere i concreti motivi, del perché e con chi sia siano consumati quegli attimi che hanno dettato al poeta questi lineari, esemplari versi. Interessante è notare la costruzione poetica del “narrare”: lo stato d’animo non l’accadimento. Quest’ultimo può solo intuirsi, ma non è rilevante. Pochi attimi di vita vissuta, lo sprofondare nel giallo grano, mettono in fuga “ l’angoscia indolente”, ma è per poco perché questo momento vitale (“rettangolo”) è “ figlio di un tempo ristretto” (troppo, verrebbe da dire) e velocemente passa; restano le umane sofferenze, ma non sono sole. Resta con loro anche Dio, a nostro fianco. Da notare: versi liberi, cadenzati da strofe irregolari (irregolarità sostanziali al risultato finale); originale alquanto, l’aggettivo “indolente” per definire l’angoscia; fanno da cerniera ritmica due assonanze al mezzo (giallo/grano e tempo/stretto); infine il penultimo verso “va”: è come un soffio leggero che “prepara e lancia” il lungo verso finale: “tra le nostre sofferenze e Dio”.
Antonio Avenoso (Melfi 1954) è poeta di provata militanza. Lo testimoniano i tanti libri di poesie finora pubblicati: da “Metamorfosi” del 1977 a “Un poeta ricomincia daccapo” del 2011, più di venti. E i tanti premi ricevuti. Pensionato ENI da poco, si dedica a tempo pieno di poesia e attività culturali. Amico non solo di poeti, ma anche di pittori , come Luca Alinari, si occupa anche di critica artistica. Ha scritto per la Rai due sceneggiature: sul poeta venosino Orazio e su Federico II di Svevia.
“E GNORSI’” di Matteo Apicella
Te facevo nu segno passanno,
tu cu ‘a capa dicive ca no:
chesta storia duraie pe n’anno,
e na sera diciste: gnorsì!
Stu “gnorsì” ‘o diciste redenno,
t’arricuorde? Na sera d’està!
Tu na veste te stive cusenno
nnamze ‘a porta e me stive aspettà.
Chella veste ca stive facenno
nnanze ‘e piede ‘a lassaste cadè,
pe ce strégnere ‘e mmane tremmanno,
pe vvsarce sti vvocche, Mariè!
Matteo Apicella
Da “ ‘a nnammurata mia poesie napoletane “ Mitilia, Cava de’ Tirreni 1968
Matteo Apicella 1989 (Proprietà Privata)
Una poesia semplice (versi di varia lunghezza suddivisi in tre quartine con rime alternate spurie), spontanea, ma ricca di suggestioni d’epoca. Testimonianza di situazioni, momenti, atmosfere che sembrano, specie agli occhi delle ultime generazioni, non reali; tanto sono oggi riproponibili. Corteggiare una ragazza “pe n’anno”, potersi vedere così sull’uscio di casa e furtivamente scambiarsi un segno “cu ‘a capa” durante le sere calde d’estate fino al tanto sospirato primo bacio. Un’estate di tanti anni fa, molto diversa da questa nostra, con attorno il verde delle colline di Cava così care a Matteo Apicella pittore. E’ un mio piccolo omaggio a un nostro concittadino cui si può attingere attraverso le sue tele e anche riscoprendo i suoi scritti che non hanno “ufficialità accademiche”, ma tessono un genuino legame con chi visse prima di noi.
Matteo Apicella (Cava de’ Tirreni 1910 – 1996)
“Questo odore marino” di Giorgio Caproni nel centenario della nascita
Questo odore marino
che mi ricorda tanto
i tuoi capelli, al primo
chiareggiato mattino !
Negli occhi ho il sole fresco
del primo mattino. Il sale
del mare …
Insieme, come fumo d’un vino,
ci inebriava, questo
odore marino.
Sul petto ho ancora il sale
d’ostrica del primo mattino.
Giorgio Caproni da “Ballo a Fontanigorda e altre poesie” Emiliano degli Orfini, Genova 1938
Lirica a schema libero di 13 versi. Quasi tutti settenari. Sono presenti alcune rime (Vv. 1-4 marino/mattino; Vv. 9/11/13 vino/ marino) e un’assonanza (Vv 5/6 sale/mare). Da notare un’elegante alternanza di due sintagmi – chiave: odore marino (ai Vv. 1 e 10) e primo mattino (ai Vv. 3/4, v.6, v.13). Nel rincorrersi di questi due sintagmi, è tutta la forza di questa poesia. Il luminoso (chiareggiato) mattino di un giorno della sua Liguria, l’odore del mare, il tiepido sole appena sorto, tutto inebriava come l’ effluvio (fumo) di un buon vino. E il poeta stesso diventava parte del tutto, del paesaggio, attraverso il sale d’ostrica che ancora sente sul proprio petto. Dalla semplice percezione fisica a rappresentazione concreta del suo stato di naturale euforia che ancora gelosamente conserva, come cosa viva, sulla pelle.
M. Luzi, M. L. Spaziani e G. Caproni
Giorgio Caproni (Livorno 1912 – Roma 1990) All’età di 10 anni si trasferisce con i genitori a Genova. Maestro elementare, ma soprattutto poeta e anche traduttore e critico. Nel 1936, compare la sua prima opera “Come un’allegoria” a cui faranno seguito, tra gli altri, “ Il seme del piangere” 1959 scritto per la morte dell’adorata mamma e il notissimo “Il congedo del viaggiatore cerimonioso “ 1965. La critica ufficiale, che in vita, era stata poco attenta a questo atipico e originale poeta, ora l’ annovera tra i grandi della letteratura del X secolo.
100 anni fa nasceva la poetessa Antonia Pozzi. Ricordiamola con la breve ma stupenda lirica “Pudore”
Se qualcuna delle mie povere parole
ti piace
e tu me lo dici
sia pur solo con gli occhi
io mi spalanco
in un riso beato
ma tremo
come una mamma piccola giovane
che perfino arrossisce
se un passante le dice che il suo bambino è bello.
1 febbraio 1933 – Antonia Pozzi
Da “Parole” Garzanti, Milano 1989
In questa breve ma fulminante lirica, la giovane poetessa (aveva 21) con pochi tratti riesce a delineare l’intenso turbamento d’amore procuratole da un pur semplice complimento (Se qualcuna delle mie povere parole/ti piace) “trasmesso“ attraverso lo sguardo. La giovane donna prorompe in un riso “beato” ma è presa da un irrefrenabile tremore come – e qui la metafora è stupenda- una giovanissima mamma che arrossisce se qualcuno, anche un anonimo passante, le dice che suo figlio è bello. Pozzi riesce a tracciare una tenue e al tempo stesso fortissima linea di contatto tra i primi segni di un nascente amore e la maternità– credo molto agognato dalla poetessa- suo approdo naturale. La Pozzi morì suicida a solo 26 anni.
Antonia Pozzi (Milano 1912-1938) figlia di genitori borghesi e benestanti, dopo il liceo s’iscrive alla facoltà di lettere e filosofia e qui stringe amicizia, tra gli altri, con Vittorio Sereni e Dino Formaggio. Si laurea con una tesi su Flaubert (lavoro pubblicato postumo). Colta, intelligente, molto versatile e piena di curiosità, ama la natura e il bello in tutte le sue manifestazioni, ma non riesce a non sentire l’angoscia per tutto ciò che c’è di sbagliato, di tragico. Angoscia che si anniderà fin dentro il suo animo. Amò moltissimo la montagna e la fotografia; fu anche un’eccellente fotografa. Il 3 dicembre del 1938 si tolse la vita.