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CORONAVIRUS. La Voce dei Poeti: “Nel silenzio delle prime ombre” di Giulia Borroni

Parlare di Giulia Borroni è parlare di … Mario Luzi, o meglio di “zio Mario”, come la poetessa amava chiamare e chiama il grande poeta fiorentino. E’ doverosa, quindi, una premessa. Nei miei studi luziani, sfociati nel 2014, anno del centenario della nascita del poeta, in un mio saggio (La vita al quadrato – Sulla poetica di Mario Luzi, LietoColle 2014), notavo che della famosa poesia “Notizie a Giuseppina dopo tanti anni” non si sapeva altro che “ la poesia è indirizzata a Giuseppina Mella, maestra lombarda, conosciuta quindici anni prima a San Pellegrino terme dove, entrambi adolescenti, erano al seguito delle rispettive famiglie” (Mario Luzi, L’opera poetica a cura di Stefano Verdino, Meridiani Mondadori- Nota, pag.1447). Null’altro. Da qui la curiosità di saperne di più. Curiosità del ricercatore che mi ha permesso di “scoprire che l’incontro avvenne nel mese di luglio del 1934 dove, effettivamente, il poeta era in compagnia dei genitori recatosi dalla Toscana al famoso centro termale per la cura delle acque così come Giuseppina in compagnia della madre anch’essa a San Pellegrino per lo stesso motivo. Tra loro nacque una forte amicizia che culminò molti anni dopo nella famosa lirica. La mia ricerca mi condusse poi da San Pellegrino a Castellanza, città natale di Giuseppina, fino ai giorni nostri fino a… Giulia Borroni, figlia di Giuseppina Mella. Dalla gentile signora, ho appreso che dopo un lungo periodo di lontananza, i due si erano rivisti e legati dall’antica e cordiale amicizia giovanile, si erano saltuariamente frequentati fino alla morte della signora Giuseppina. Giulia ebbe, così, l’opportunità, sin da ragazzina, di frequentare il poeta e di averlo ospite più volte a Castellanza e di affezionarsi tanto a lui da chiamarlo “zio Mario”.

Della signora Borroni propongo questi inediti versi anch’essi nati in questi tremendi giorni di angoscia.

Nel silenzio delle prime ombre

Nel silenzio delle prime ombre

tra lo sfiorire della luce

e l’apparire della luna

affidare al contatto delle mani

tutto l’affanno di vivere

che si disperde e si scioglie

mentre danza

nella polvere dell’imbrunire

libero il pensiero!

Giulia Borroni (inedito)

In uno schema da poesia prosastica, Borroni si affida più che al ritmo dei versi, a un ordito semantico che regala nell’uso della sinestesia unicità e armonia al testo: “Silenzio delle ombre”, “lo sfiorire della luce”, “polvere dell’imbrunire”. Esemplare il dettato di centro: “affidare al contatto delle mani/tutto l’affanno di vivere” con il conseguente atto finale: “libero il pensiero!” 

Oggi che è vietato per legge, il semplice antico gesto dello stringersi la mano, dell’abbraccio amicale o affettuoso, Giulia Borroni ci regala una lettura sentimentalmente poetica del profondo valore di questo gesto. La sera, momento crepuscolare da sempre foriero di emozioni per poeti di ogni tempo (basterebbe citare soltanto Petrarca, Foscolo o Leopardi), quando la luce del giorno va a morie e affiorano le prime paurose ombre e la luna ci dona il suo amicale chiarore, è quello il momento più d’ogni altri in cui una stretta di mano diventa un gesto che sa di portentoso; sembra quasi che i dolori del giorno, dell’affannoso vivere quotidiano, si disperdano, come balsamo d’amicizia o d’amore per una vita fatta di gioie ma anche di paura, di momenti terribili e dolorosi come questi nostri giorni. Al semplice contatto di due mani che si cercano, “al contatto delle mani/tutto l’affanno di vivere/ che si disperde tutto diventa magia” nasce una lieve dolcissima danza che sconfigge il nero velo della sera e della notte prossima a venire e così il pensiero si fa libero, vola immaginando un mondo diverso fatto di luce e di ritrovata serenità.

Giulia Borroni Cagelli , è nata a Castellanza dove risiede. Ex docente di Lingua e Letteratura Francese negli Istituti Superiori, ama comporre versi sia in lingua italiana che in lingua francese con riconoscimenti e premi anche da prestigiose accademie francesi: Club “ Sophia Poésie” di Valbonne-Antibes-Costa Azzurra; “Société des Poètes Français” a Parigi – Quartiere Latino. Tra le più recenti pubblicazioni, citiamo: Sul cammino di Santiago. Itinerario poetico alla ricerca della sorgente dell’amore divino Montedit, 2006; Vertigine africana-African vertigo, Montedit 2008; Breviario d’amore, Montedit, 2010; Voli di falchi e fischi di marmotte, Tigulliana 2016.

Coronavirus. La voce dei poeti: Antonio Avenoso

Continua la mini antologia La voce dei poeti, poesie inedite scritte in questi travagliati giorni. La “voce”, questa volta, è quella del poeta lucano Antonio Avenoso.

A volte

A volte, nessuno crede nella propria vita.

Come una carezza virtuale

i bambini disegnano aquiloni

canticchiano canzoni.

Passerà anche questo giorno

come una lacrima cadrà

in attesa dell’avvento

e tutti riprenderemo ad ascoltare il vento.

Antonio Avenoso (Inedito)

Mi piacere sottolineare che questa poesia nell’apparente veste prosastica, denuncia un interessante gioco d’armonici ritmi dati dall’accorto uso di rime baciate (aquiloni/canzoni vv3-4), (avvento/vento vv.7-8); una rima al mezzo (disegnano/canticchiano vv 3-4). Vibrante intensità positiva, poi, nella scelta delle voci verbali usate: disegnare aquiloni, canticchiare canzoni, riprendere e poi ascoltare, esse sanno regalare alla poesia un soffio di levità, scelta quanto mai felice in questi giorni che sembra mancare a tutti noi l’area vitale, il respiro. Giorni terribili e dolorosi che diventano nella trasfigurazione poetica nei versi di Avenoso, l’occasione per una profonda riflessione sull’uomo, le sue scelte, i suoi errori, le sue presunte certezze. Tutto è in discussione come in tante altre volte quando “nessuno crede nella propria vita” spinti dal credere che sia vita ciò che ha solo parvenza di vita. Questi giorni sembrano non avere più respiro, tutto è immobile, tutto è sospeso, solo, ahimè il dolore e la morte sembrano aver cittadinanza attiva. Ma gli aquiloni e le canzoni dei bambini non si arrendono, vibrano e volano insieme nell’aria con la forza di una “carezza virtuale”. Non è questo che solo un lungo incredibile momento di una sola unica lacrima, come unico è l’uomo ma frutto d’un irripetibile insieme, che vibrerà in attesa della nuova rinascita, che sarà come musica portata da un dolce vento che annunzierà la fine dei giorni del dolore e l’inizio di aurea ritornata respirabile e serena.

Antonio Avenoso (Melfi 1954) è poeta, operatore culturale. Dal suo primo libro di versi “Metamorfosi” del 1977 a oggi, ha pubblicato circa venticinque libri. Tanti anche i premi e i riconoscimenti. Amico non solo di poeti, ma anche di pittori, si occupa anche di critica artistica. Ha firmato per la Rai due sceneggiature: su Orazio e su Federico II di Svevia.

Centoventi anni fa, esattamente il 24 maggio 1900, nasceva Eduardo De Filippo

In questi giorni di pandemia, il mio pensiero è andato a un’altra epidemia, quella del colera avutasi a Napoli verso la fine dell’estate del 1973. E allora ho “scavato” nel mio ampio archivio cartaceo preso dal desiderio/curiosità di rileggermi quanto aveva detto, fra gli altri, il grande Eduardo. Di seguito riporto alcuni suoi versi.
Alla cozza che fu imputata di causare il colera, Eduardo fa dire a sua discolpa:

…. “Ecco vedete…
Affunn’ ‘o mare ‘a còzzeca s’arrangia”
dicette l’imputata, “…e lo sapete…
là ssotto, presideè, pare l’inferno!
Chello c’arriva, ‘a còzzeca se mangia:
si arriva mmerda, arriva dall’esterno!”

Denuncia chiara sugli errori degli uomini. Infatti, Eduardo aggiunse pure: “I responsabili devono essere individuati bene e io desidero che la mia voce si unisca a quella dei lavoratori, sia nella protesta che nell’accusa”. Parole che, purtroppo, risuonano attualissime: di chi la colpa di tanto dolore e morte? Chi i responsabili dei tantissimi morti, specie, in Lombardia? Si sarebbero limitati i decessi se si fossero istituite altre zone rosse nella bergamasca, come la chiusura dei paesi di Alzano Lombardo e Nembro? Scelte sbagliate o operate lucidamente per interessi di “taluni”? Possiamo essere certi che, oggi, Eduardo, proporrebbe ancora quella sua “protesta/accusa”. Tra le poesie scritte in quei giorni, vi è anche una che ha per tema la morte, dal titolo “‘E bbalice”.
Il poeta non sa dove lo condurrà questo suo ultimo viaggio e quindi è indeciso cosa mettere nella valigia e così s’interroga:
….

Me porto appriesso ‘ fatte”…
o pure:
“Mo me porto ‘fessarie”…
Io me ce songo miso
c’’o pensiero,e
‘a verità
ve dico chiaro e ttunno,
aggio ditto:
“Mo faccio ‘ capa mia:
me voglio purtà ‘ e fatte all’auto munno,
e lasso ‘ntera tutt’’e fessarie”.

Lasciamo le fesserie agli uomini –ci dice Eduardo- ancora e sempre “maestro” pronto al sagace ammonimento tra l’amaro e il dolce. E un Eduardo che sempre ammaestra gli uomini anche dall’aldilà, è il tema di una mia breve poesia in vernacolo scritta di recente, mio modesto omaggio per il centoventesimo anno della sua nascita.

O presebbio

È sempe juorno e ‘o cielo è chieno ‘e stelle
e ‘a nuttata ccà nun vene maje.
E sotto, ‘o munno è comme a ‘nu presebbio
ca cumbatte, spanteca e se fa male assaje.
Nun s’è capito ancora comme se campa!

Antonio Donadio

(Inedito)

Trad. (Qui dove mi trovo ora) E’ sempre giorno e il cielo è pieno di stelle/e non giunge mai la notte./E sotto (sulla terra), il mondo appare come fosse un presepe/ che combatte, spasima e si fa molto male./ Non si è capito ancora come si deve vivere!

Coronavirus. La Voce dei Poeti: Réservé di Paolo Romano

Réservé

Come quando un cameriere

lascia cadere un bicchiere

tutti quei cristalli infranti

piccoli diamanti

per l’infinito stupore

d’essere vivi

alternativi

inseriti in un’antologia d’amore

che il calice ha richiamato

un brano di vetro soffiato

un bacio appena dato

un trionfo privato

apparecchiato al tavolo

della sera incommensurabile

fosse una vita cantabile

sarebbe una nostalgia

piena di melodia.

Ma ho perso tutto dalle tasche

rimangono pochi sorrisi

dimenticanze

cosa da nulla

il loro tutto confortante.

La voce tua distante.

Paolo Romano

Una poesia questa da leggersi tutta d’un fiato, senza pause, condotta saggiamente per mano dal ritmo cadenzato che lo avvolge godendo di un’interessante tessitura ritmica. Benché sia un’unica strofa, per comodità d’analisi, la suddividerei in due parti. La prima parte risulta costituita da ripetute rime tra baciate e alternate (A A B B A CC A D D D D – F F G G) che accompagnano melodicamente il lettore nella veloce “narrazione” che si va rappresentando di cui, come poi vedremo, il poeta è spettatore. La seconda parte è costituita da soli sei versi: il poeta, non racconta più l’accaduto ma il suo stato d’animo che, formalmente non richiede più l’ausilio di rime (assente nei seguenti quattro versi). Il suo è un prorompere duro, di dolorosa riflessione su quanto narrato prima: uno sfogo istantaneo, diretto. E’ solo negli ultimi due versi che ritorna la rima, baciata, ma crudele nella dolorosa contrapposizione di un “tutto confortante” ad una “voce tua distante”. La tristezza del canto è papabile e aggettivi “dolorosi” stanno a sottolinearlo: da cristalli infranti, a infinito stupore, a trionfo privato“ a “fosse una vita cantabile/sarebbe una nostalgia/ piena di melodia” e poi “pochi sorrisi”… “cosa da nulla”. In chiusa: “La voce tua distante”.

I terribili momenti che stiamo vivendo, la nostra scoperta fragilità di uomini diventa una poderosa immagine icastica nei versi di Paolo Romano: l’uomo, un vetro fragile che va rompersi in mille “cristalli infranti” quasi come “piccoli diamanti” che si appropriano, inaspettatamente, di una propria vita nascosta. Compressi a dar forma ad “un bicchiere” di vetro, nascono come cose a se stanti, autonome e nuove, continuità e diversità insieme. Il bicchiere, finito in frantumi, ha portato con sé un’intensa sconosciuta ma prevedibile storia, testimone d’incontri d’amore, di labbra sfiorate, di successi o sconfitte per un canto che “sarebbe una nostalgia/piena di melodia”. Sembra il momento della riflessione o forse del conto finale, dei ripensamenti o forse dei rimpianti… In questi giorni ognuno di noi è messo a nudo davanti alla sua stessa vita, non può barare, la sua vita distratta, fino ad ieri, da mille quotidianità potrebbe presentargli il conto finale. Il bicchiere si è rotto, è andato in mille frantumi… segni belli o tristi, vicende di vita inesorabilmente andate per sempre. Si ritrova solo, l’uomo, insieme a tanti altri uomini soli ma tutti legati da un unico destino: una quarantena che isola ma anche affratella, che fa ritrovare una forza e un vigore forse inaspettato. Ecco l’uomo che sente di possedere più nulla, ha “perso tutto dalle tasche” gli rimangono soltanto “pochi sorrisi/”dimenticanze/cosa da nulla”. Un’ infinta tristezza lo pervade. Nella sua solitudine, la mancanza di una voce “voce tua distante”, lo fa piombare nell’angoscia. E mai come in questi giorni si fa prorompente il bisogno di una voce, familiare, amica, o perfino lontana che arriva a noi tramite mezzi mediatici o da un vicino cortile, dall’ attiguo terrazzo cantando o urlando un messaggio di speranza, di coraggio. Riscoprire il valore balsamico della voce, di un’altra voce che non sia la nostra che serva per infondere coraggio a noi stessi e a quanto a loro volta aspettano la nostra voce in questi attoniti silenzi di una comune anima.

Paolo Romano, giornalista professionista, già in forza a Rai-Giubileo, è redattore di TDS Salerno. Collabora con il quotidiano “Il Giornale del Sud”. Ha realizzato documentari in India, Tunisia, Germania, Israele, Egitto, Giordania. Ha vinto il premio Giornalistico “Città di Salerno” (2006) e il Premio “ Media e Territorio”(2010). Tra le sue pubblicazioni: “Menti perdute” (Ripostes 1995); “Circo-stanze” (Ripostes 2000): “Il Dio della valigia” (Il grappolo 2004); “Mille quadri non dipinti” Pref.di Erri De Luca, 2017; “La storia di Salerno dalle origini ai giorni nostri” Editrice Typimedia,Roma, 2019. Una silloge di sue poesie è stata tradotta in inglese e pubblicata negli Stati Uniti su “Gradiva-Internazional Journal of Italian Poetry”.

Coronavirus. La Voce dei Poeti: Paolo Ruffilli

Questa mini antologia che raccoglie poesie inedite scritte sul Coronavirus, ospita questa volta una lirica del poeta Paolo Ruffilli.

Quarantena

In quarantena

non ha più misura,

il tempo, è sconfinato

e solo si riflette

il suo tracciato,

in ogni modo

qualunque sia mai stato, 

sugli specchi di

ore e giorni 

come ciò che cambia

mentre dura e ha 

in sé la fine e

il suo principio

contro la parete 

nel giro in cui si

mette e che ripete.

Paolo Ruffilli (inedito)

Quarantena”: dettagliata, originale “panoramica d’interno” come specchio dello stato d’animo di chi vive in quarantena o serrato nell’assordante silenzio delle nostre case in questi terribili dolorosi giorni. Rufflli non è certamente nuovo all’indagine sull’uomo attraverso una poetica originale “lettura” delle cose che ci circondano, come testimonia anche il suo ultimo libro di liriche: Le cose del mondo, edito dalla Mondadori a gennaio di quest’anno. Una lirica perfettamente modulata dove l’enjambement dà il tempo al respiro, alla riflessione rapida e allo stesso penetrante, dalla forza quasi subliminale. Versi apparentemente liberi, ma dalla costruzione metrica cadenzata attraverso le rime qua e là con discrezione disseminate (sconfinato/ tracciato/ stato), qualche rima al mezzo (solo/modo) per un ritmo che dapprima quasi mozzato riprende poi, vigorosamente, al verso successivo per poi essere ancora negato, così fino alla fine per una definitiva semantizazione del contenuto di cui Ruffilli è maestro. Al centro, il Tempo da sempre nemico o amico, veloce o lentissimo nel dettare il ritmo del nostro vivere quotidiano, ora non è più quantificabile. Presuntuoso l’uomo che ha sempre creduto di essere il padrone del tempo, di gestirlo a suo piacimento; in questi giorni di pandemia il tempo si mostra in una nuova veste, “non ha più misura”. Eccolo che dagli specchi si riflette e ci riflette e ci controlla e dirige le ore e i giorni, ”sugli specchi di ore e giorni “ e sa essere principio e fine “e ha /in sé la fine e/il suo principio”. E’ lì il tempo tangibile “contro la parete” di una stanza che da giorni ci accoglie, ci difende, ma allo stesso tempo, ci serra prigionieri; e lì pronto a ricominciare ancora, un giorno dopo un altro, “nel giro in cui si /mette e che ripete”, pronto nella sua monotona conta incurante del serrato suo ospite che non sa quanto questa ”prigionia” possa aver fine.

Paolo Ruffilli (Rieti, 1949) è poeta, scrittore, saggista, traduttore. Tra i suoi testi di poesia citiamo: La Quercia delle gazze (Forum, 1972); Piccola colazione (Garzanti, 1987); Camera oscura (Garzanti, 1992); Le stanze del cielo, Marsilio, 2008); Affari di cuore (Einaudi, 2011) Variazioni sul tema (Aragno, 2014). Le cose del mondo, Lo Specchio Mondadori, 2020. Tra romanzi e saggi: Vita di Ippolito Nievo (Camunia, 1991) Vita, amori e meraviglie del signor Carlo Goldoni (Camunia, 1993); Preparativi per la partenza (Marsilio, 2003); L’isola e il sogno (Fazi, 2011). Ha tradotto, tra le altre, opere di Gibran; Tagore; Shakespeare; Milton; Mandel’štam; Kavafis, Vincitore d’importanti premi nazionali e internazionali, i suoi libri sono stati tradotti in molte lingue.