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E Cappuccetto non si fece sbranare dal lupo. “Le stelle di crema”, del salernitano Luigi Crescibene, è il romanzo di una ragazza in carriera in cerca della sua identità

luigi-crescibene-vivimediaSALERNO. Luigi Crescibene, noto e prestigioso docente e critico d’arte salernitano, oltre al tavolino dello studio ama anche il caminetto dell’affabulazione, dei racconti, dei romanzi.

Gli piace avventurarsi in storie dal sapore agrodolce, in cui ora si solleva dal caos della vita quotidiana per osservarla con occhio più distaccato e criticamente disincantato, ora si avventura nel guazzabuglio del cuore umano (privilegiando quello femminile) per evidenziarne battiti, frustrazioni e complessità, ora socchiude gli occhi per filtrare la nebbia e cercare dentro la propria identità il filo di Arianna per uscire dai labirinti esistenziali e respirare con leggerezza la sostenibile pesantezza dell’essere.

Così anche nel suo ultimo romanzo, Le stelle di crema (Ed. Mursia).

L’ardito accostamento del titolo evoca brillio, gusti, sapori, ma anche sospirate lontananze. E l’incipit (Flo, con la sua solita grazia, entrò in classe, affannata) ci dipinge subito uno schizzo della protagonista: nome Flo, studentessa, bella ragazza, aggraziata nei movimenti, affannata nello spirito.

Sono indizi sfumati eppure chiari, che offrono la chiave per entrare nel plot della vicenda. Si racconta degli agi cercati e dei disagi psichici e psicofisici (comprese le crisi ipoglicemiche da superdieta e le quasi conseguenziali crisi anoressiche) incontrati dalla giovane campana Flo nella sua esperienza a Milano come modella in carriera. Qui corre il rischio che la sua identità e la sua freschezza adolescenziale siano stritolate dai meccanismi di copertina-del-libro-luigi-crescibene-vivimediaquel mondo della moda in cui la strumentalizzazione della persona è un’abitudine consacrata, unita alla logica del compromesso ed alla creazione della maschera necessaria per vendersi bene. Da aggiungere, a questo, la pressione dei genitori di Flo, cinicamente più realisti del re e ben disposti non solo a sopportare che la figlia si comprometta, ma anche a sollecitarla perché ciò succeda, purché favorisca il successo.

Da questo breve accenno al plot della storia si possono intuire gli elementi di critica, o anche di semplice rappresentazione sociale presenti nel romanzo e del resto conformi ai gusti dell’autore, che privilegia lo storico realismo russo e le punte della letteratura realistica americana moderna, in testa Caldwell ed i suoi bastardi di periferia, figli di semi sociali già bastardi.

Noi crediamo però che la qualità del racconto risieda non tanto nella non originalissima storia di base, quanto nelle sfaccettature con cui vengono tratteggiati episodi e personaggi. In particolare, l’animo di Flo, tutt’altro che piatto e scontato, viene scomposto e messo a fuoco nelle sue varianti e nelle sue contraddizioni.

Mandata allo sbando in un mondo più grande di lei, la ragazza subisce ed elabora una forma di passivizzazione attiva: è indotta a scegliere quello che altri scelgono per lei (i genitori e il manager-amico -amante Ivano in testa), ma col passare dei giorni sceglie lei stessa di sceglierlo e poi alla fine farà anche le sue scelte autonome di vita e di professione. Le hanno insegnato a concedere anche il suo corpo pur di perseguire il successo, e lei ora cede tout court, anche alle avance della tuttofare Mia, ora ci mette il suo concedendolo “con amore”, e ad un certo punto anche amando e frequentando alla pari due persone molto diverse tra loro, il manager ed un amico napoletano stile genero di mammà.

In altri momenti, paradossalmente, lei, che sembrava una vittima sacrificale in posizione down, si pone nella condizione dell’opportunista in posizione up. Come un Cappuccetto rosso che prende a morsi il lupo… E nel formarsi della sua nuova identità, riesce a fare un mix tra i valori delle radici di paese e le opportunità di guadagno della metropoli. Un mix imperfetto, ma in fondo la sua foto più riuscita sarà proprio quella meno costruita…

Alla fine, la mangiata a papille danzanti di quei bigné alla crema che le erano sempre stati vietati è la torta sulle ciliegine di una storia di formazione interiore che in fondo rappresenta uno degli obiettivi del narratore.

Abbiamo preso in esame la figura di Flo, sia perché è la protagonista sia perché può essere un esempio significativo. Ma fattori di cubismo introspettivo non mancano neppure negli altri personaggi. Ivano, il manager, in primis: cinico quanto basta e serve, aria da padrone che non ama opposizioni, inserito a pieno titolo nel meccanismo perverso degli interessi commerciali, eppure rispettoso e non possessivo amante di Flo e della sua adolescenza, eppure “padre” affettuoso e consapevole nei momenti chiave, capace perfino di di slanci infantili, coraggioso nell’ammettere le fragilità emotive.

Senza contare il rapporto controverso di Flo con i genitori, fatto di timori, ribellioni, abbandoni e abbracci, o la maschera grottesca della madre, donna dalla femminilità a brandelli che cerca compenso alle sue delusioni nella costruzione dei sogni di Flo e quando ne sente le resistenze prova insieme sgomento, tenerezza e rabbia.

Crescibene ama calarsi nelle esplorazioni delle persone, ma nello stesso tempo, come uno speleologo sempre sul chi va là, appena sfiora il centro del cuore, si fa tirare su per respirare aria meno magmatica. Ama creare situazioni che includono scene di amore fisico, ma, appena i protagonisti entrano nella stanza, lui ne esce, con discrezione. Ama presentare situazioni articolate, eppure privilegia una narrazione pronta all’ellissi, forse per lasciare spazio adeguato all’immaginazione.

Per lo stesso motivo egli solletica il lettore quando, tra spasmi di insicurezze e di aridità, inserisce frammenti lirici come il respiro di una siepe di gelsomino, consoni alle sue radici intrise di silenzi naturali. Sono però flash, perché a lui piace lasciare l’alone.

Forse, questo alone è quello della mancanza di certezze, dell’inafferrabile cuore della verità, del mistero con la faccia di luna. Vaghezze da avanguardie pittoriche, ma mai tali da cancellare il piacere, sia pur fulmineo e contingente, di un bigné alla crema divorato col gradito sudore di una scalata verso la propria stella più lucente…

Storia d’amore … e malattie. Brilla la giovane cavese Giusella De Maria al suo esordio Mondadori con il romanzo “Io non sono ipocondriaca”

CAVA DE’ TIRRENI (SA). Due capitoli iniziali scoppiettanti, divertenti, stimolanti: ed eccoci subito catapultati nel mondo di Nina, l’affascinante “cuoca imprenditrice” sorrentina che “non è” ipocondriaca, o almeno crede di non esserlo. Era dai tempi delle conversazioni erotico amorose a base di pillole tranquillanti ed antidepressive tra Woody Allen e Diane Keaton in Provaci ancora Sam o tra il Verdone e la Margherita Buy di Maledetto il giorno che t’ho incontrato, che non mi capitava un’ironia così frizzante ed incisiva sui malati più o meno immaginari. Mentre leggevo e ridevo, alle mie spalle sentivo lo spirito di Molière sbirciare le pagine e scoppiare in un compiaciuto sorriso alla francese.

Seduttore l’incipit, squillante l’approccio, fresco il talento, dissetante e stimolante la lettura di tutto il libro: insomma, chiare, fresche e agrodolci acque per il brillante secondo battesimo di Giusella De Maria, giovane e promettente scrittrice nata a Cava de’ Tirreni (dove condiva la penna con l’olio dei sogni fin dai tempi del Liceo Scientifico “A.Genoino”), che con Non sono ipocondriaca ha esordito con la Casa Editrice Mondadori dopo il felice esito nazionale del primo romanzo, Suona per me (Avagliano Editore).

Il personaggio di Nina, nel racconto in prima persona, buca subito la pagina, emergendo come quello di una giovane trentenne in continua guerra con la paura di infezioni e malattie, di ictus improvvisi e soffocamenti da allergia, e quindi barricata sulla trincea della prevenzione con provviste di medicinali a carrelli, con igiene e lavaggi a mitraglia della casa e della persona, con innamoramento verso le farmacie come fossero pasticcerie e bordate di maledizioni contro i medici Prozac che attribuiscono tutto alla suggestione. Il tutto è accentuato dalla natura del suo lavoro, che ha il centro a Sorrento ma si effonde negli angoli turisticamente più in della Divina Costiera: Nina non ha un catering, ma “è” un catering, essendo creatrice di cibi raffinati e fantasiosi ed imprenditrice di successo, prima dipendente della sua azienda -persona. Non fa tutto da sola, naturalmente: collaborano con lei l’amica pasticciera Lucy, l’amica convivente Carol di spirito e pronunzia anglosfiziosi, il tuttofare Gigi, simpatico ed empatico. Collaboratori sì, ma soprattutto amici e confidenti, che sono proteico contorno e parte integrante del colorato Nina’s world. A loro si aggiunge presto Lino, neodirimpettaio dalla squisita sensibilità femminile, meravigliosamente farmacista ed anche lui convintamente antimediciprozacman.

Su questa cornice appetitosa si sviluppa la storia di Nina, delle sue fisime, del suo incontro “cinematografico” con il bolognese Marcus, scambiato inizialmente con un simpatico pesatore di cipolle da supermercato e poi rivelatosi invece, oltre che una persona di calda sensibilità e di alto profilo intellettivo ed umano, un supermedico di fama nazionale, un Dottor Fusto mica male, degno di Ashton Kurtcher, lo strafigattore-modello-produttore USA, tra l’altro ex marito di quella Demi Moore che di stra…non manca di certo.

Se l’antipasto è appetitoso, il “pranzo” cucinato da Giusella De Maria è ben degno delle aspettative. E non solo perché qua e là tra feste amicali, cenette intime e cerimonie conviviali fanno capolino una miriade di pietanze che potrebbero costituire un libro intero di ricette (magari dal titolo Fata Nina in Cucina-Le ricette per curare l’ipocondria). Ci riferivamo allo sviluppo narrativo, ai vari piani di lettura possibili, allo stile giuselliano.

La struttura della trama e lo stile narrativo sono a prima vista ispirati alla commedia rosa, con più di una strizzatina d’occhio verso la pink comedy cinematografica targata USA.

La storia d’amore, su cui essa si incentra, segue il classico schema: l’incontro casuale, le fasi iniziali sospese tra incantamento e conflittualità, i picchi di intensità e di distacco, la “catastrofe” che rivoluziona il rapporto, la “spannung” del sottofinale che fa temere la fine del possibile lieto fine, prima dell’invenzione che risolve in altro modo la vicenda.

Ma questi ingredienti non bastano. Per coinvolgere il lettore, occorrono due elementi imprescindibili: l’affabulazione arpionante e i colpi di scena disarmanti. E qui Giusella de Maria dimostra di essere già decisamente all’altezza. Lo stile è scoppiettante ed i periodi vanno giù con la facilità e la sostanza di una coppa di champagne…o di una pasticca orodegradabile. Quando poi la storia sembra aver preso la piega attesa dal lettore, ecco una piccola deviazione, quel tanto che basta per far capire che nulla è scontato.

E scatta così l’arpionamento del lettore, poi insaporito dalla suggestione delle tematiche. L’ipocondria in primo piano, naturalmente, studiata e rappresentata con ampie cognizioni scientifiche, umanamente compresa ma poi denunciata con tutto il suo carico di difesa dalla vita che fa morire dentro. E con il fragore elettrica che sorge dal contatto tra malattia presunta e malattia vera.

E la costante dialettica, veicolata soprattutto dal tris Nina-Marcus-Lino, tra la logica dell’essere medici di se stessi e la necessità di affidare se stessi ai medici, magari con la necessaria scommessa di una bustina di fiducia idrosolvente.

E la fondamentale importanza, nelle relazioni, della comunicazione senza reticenze e dell’informazione razionale su ciò che veramente succede prima di dar luogo all’esplosione irrazionale per ciò che pensiamo sia successo.

E poi, la capacità di comprendere che non siamo l’ombelico del mondo e che, in un confronto vero, e senza ombelico dominante, con le vite degli altri, noi stessi, gli altri, il mondo appariremmo in una luce più chiara, come succede a Nina dopo i giorni rivelatori trascorsi in ospedale.

E ancora, l’avvertimento che dietro atteggiamenti anomali e fobie consolidate si nascondono spesso insicurezze, o traumi la cui conoscenza apre ponti lì dove la diffidenza di fronte alla stranezza aveva creato dei muri E dietro atteggiamenti di serena sicurezza si possono nascondere invece drammi dolorosi e pesanti, sopportabili solo se accettati con la consapevolezza della nostra umana fragilità. Illuminanti, al riguardo, le belle pagine sulla scoperta dei buchi neri di Nina da parte di Marcus e l’emozionante incontro di Nina con un fascinoso ammalato terminale.

Tutto questo impasto di luci e di ombre arriva diretto al cuore del lettore, ma solo dopo essere passato per il cuore della protagonista Nina, che alla fine uscirà dalle impreviste e salutari avventure di salute più libera dalle paure, più ricca di sé, più capace di amare…e di essere amata. Ma non del tutto diversa, per fortuna: chi nasce tonda, non può morire quadrata….

Il rosa del romanzo d’amore, pur nel permanere della leggerezza e della brillantezza narrativa, si colora così di tonalità più forti e più vive. Il dolce si mescola con l’agro delle nostre spalle scoperte e delle gabbie che costruiamo noi stessi intorno al nostro cuore.

In questo impasto il libro scopre le sue ambizioni.

Voleva essere un romanzo per tutte le età e per tutti i gusti, godibile e non banale: e secondo noi, nonostante qualche leggera forzatura nel finale, ci è riuscito pienamente.

La nostra Giusella voleva cimentarsi sulla scia diSophie Kinsella, campionessa internazionale del romanzo leggero di qualità. E, pur con le necessarie proporzioni, si rivela competitiva a pieno titolo, per la brillantezza dello stile e delle invenzioni…ed anche sul piano della modernità delle fisime messe in scena: la shoppingmania per la Kinsella, la farmacomania ipocondiraca o pseudo tale per Giusella.

Giusella voleva scrivere un romanzo che, come il precedente Suona per me, potesse essere l’intelaiatura di un possibile film: e crediamo proprio che, rileggendo la sua storia, si sia giustamente divertita a immaginare in celluloide le scene inventate, magari con un Dottor Fusto alla Clooney ed una sinusoidale e fascinosa ipocondriaca alla Meg Ryan o alla Jennifer Lawrence o anche, perché no, alla Paola Cortellesi, o anche, perfino e perché no, alla Giusella de Maria, dati i suoi trascorsi di attrice brillante…

Ma il suo sogno più intenso e più ad occhi chiusi eroticamente vagheggianti forse è che dopo questo romanzo anche la Mondadori Edizioni si impossessi del kit salvavita Mai senza inventato da Nina: solo che, anziché pomate e medicine come nel romanzo, si trasformi in un mai più senza Giusella. Del resto, dopo un battesimo felice, c’è la prateria di una vita tutta da conquistare. E la cavallina è pronta per galoppare …

 

Pippo Zarrella “avanza” ancora: terzo al Concorso di Duino. Ha presentato un testo ispirato allo sbarco su Lampedusa di un immigrato e di uno yacht man

zarrella-trieste-cava-de'-tirreni-marzo-2014-vivimediaCAVA DE’ TIRRENI (SA). È un concorso incentrato sull’incontro fecondo e stimolante tra Creatività e Solidarietà, è è considerato dall’UNESCO uno dei più importanti concorsi del mondo riservati ai giovani: è il Concorso Internazionale di Poesia di Duino (Trieste), patrocinato tra l’altro dal Presidente della Repubblica e dal principe Della Torre e Tasso del Castello di Duino.

Sul podio assoluto di quest’anno c’era anche il cavese Giuseppe (Pippo) Zarrella, che si è classificato terzo nella sezione Teatro con un pezzo intitolato Sbarco tu che sbarco anch’io, che, in montaggio alternato e con il racconto in prima persona da parte dei due protagonisti, presenta provocatoriamente le diverse angolazioni di vita di uno snob ricco di soldi e di un extracomunitario che separatamente si avviano allo sbarco a Lampedusa, uno su uno yacht e l’altro su un barcone.

Alla fine nel cuore del lettore sbarcano tanta amarezza, uno schizzo di rabbia, ma anche un sorriso rinfrescante prodotto dallo stile di Zarrella, che, sulla scia dei pluripremiati racconti del plurivenduto e plurirappresentato Avanzi, ha la sensibilità ed il coraggio della denuncia sociale e del viaggio nel cuore degli ultimi, ma anche l’abile intelligenza della leggerezza narrativa e della fantasia immaginativa, che coinvolgono il lettore e generano comunque speranze di un cambiamento.

Questo è stato notato, almeno in parte, anche dalla Commissione Giudicatrice del premio, che ha formulato la seguente motivazione: Con semplicità ed ironia il giovane Zarrella è riuscito a dipingere il tema dell’immigrazione, creando a tinte forti un dialogo muto tra i due protagonisti, i quali, “sbarcando” entrambi sull’isola di Lampedusa, hanno in comune molto di più di quello che si possa immaginare. Il tutto incastonato in una litania infantile che dona spessore all’intera composizione.

Il riconoscimento non si è fermato alla consegna del premio, il 23 marzo scorso, ma continuerà con la pubblicazione dei testi vincitori in un libro bilingue con allegato un CD contenente la recitazione degli stessi nelle lingue originali, il cui ricavato sarà devoluto dalla casa Editrice Ibiskos che lo pubblicherò, alla Fondazione Luchetta Ota D’Angelo Hrovatin per i bambini vittime delle guerre. Insomma, una piccola, ma significativa catena di solidarietà.

Intanto Pippo non si fermerà, ma continuerà ad avanzare con i suoi Avanzi, che, messi artisticamente in scena dal magnifico Antonello De Rosa e da un gruppo di giovani attori, saranno rappresentati in alcune rassegne estive.

E chissà che, intanto, il buon Pippo non stia avanzando nel concepimento e/o nel parto del suo secondo libro, per tatuare ancora meglio il suo nome nello scenario culturale cittadino e, soprattutto, oltre le mura di Cava. Sarebbe questo, per lui lo “sbarco” più importante…

Il gran ritorno di Manuel Foresta: il cantante cavese aprirà i concerti di Renzo Rubino e il 18 aprile canterà al Pub “Il Moro”

manuel-foresta-cava-de'-tirreni-marzo-2014-vivimediaCAVA DE’ TIRRENI (SA). Dopo aver cominciato a studiare musica e produrre canto nella natia Cava de’Tirreni sotto la guida del Maestro Michelangelo Maio, dopo aver sfiorato la vittoria nella prima edizione di The voice, il talent show RAI di Raffaella Carrà, dopo essere stato molto vicino all’ammissione al Festival di Sanremo 2014 (vicino quest’anno, dentro il prossimo?), il nostro Manuel Foresta continua la sua scalata al Monte Successo con una campagna di primavera già riscaldata da tre appuntamenti a fuoco vivo.

Il 18 aprile, tornerà nella sua Cava con la band ed uno spettacolo tutto suo. Luogo dell’incontro: il pub “Il Moro”, che immaginiamo sarà gremitissimo di amici e fans, pronti ad applaudire con affetto ed ammirazione la sua flessuosa presenza danzante in voce scenica. E non sarà proprio un Déjà vu, ma un grande ritorno per una scattante ripartenza…

Prima e dopo, alla grande con un neobig della Musica Italiana. Il 14 aprile al Teatro Bellini di Napoli ed il 6 maggio al Modo di Salerno aprirà i concerti di Renzo Rubino, il giovane cantante pugliese che al Festival di Sanremo lo scorso anno ha vinto il premio Mia Martini della Critica e quest’anno il premio per il miglior arrangiamento nella Sezione Campioni. Un cantante che fa della qualità, della grinta e dell’espressività il segno di ogni sua esibizione.

Roba da Manuel, insomma, degno banderillero del matador Rubino, ma già pronto ad essere al più presto lui, il Matador…

CAVA DE’ TIRRENI (SA). Antonello De Rosa, corpo di scena nella scena dell’anima. “Tracce di mamma” e “Jennifer” alla Rassegna “Licurti”: e si accende il fuoco del Teatro

Ha volato alto, Geltrude Barba, Direttrice artistica del Teatro Luca Barba e Direttrice Artistica della Rassegna Licurti, in scena al Social Tennis di Cava de’ Tirreni da ottobre ad aprile.

Due appuntamenti nel giro di un mese, due opere entrambe elaborate da testi di Annibale Ruccello.Traccia di Mamma, ispirato a Mamme, figure e storie di donne a contatto con le luci e le ombre della maternità vissuta e/o vagheggiata, è andato in scena il 21 in una serata dedicata all’Associazione Onlus O.A.S.I. di Nocera Inferiore (assistenza sanitaria e ludico ricreativa verso i bambini ospedalizzati dell’Umberto I di Nocera Inferiore), di cui è madrina la presentatrice Carmela Novaldi.

Jennifer, ispirato a Le cinque rose di Jennifer, andato in scena il 16 marzo, è la storia di un travestito che attende in un chiaroscurale saliscendi di umori ed illusioni la telefonata dell’uomo amato, una telefonata che si fa attendere invano e che (forse) arriva quando è troppo tardi.

Due drammi scritti per dialoghi e, soprattutto il primo, trasformati in monologhi ora formali ora sostanziali. Due opere un unico regista ed attore, il salernitano Antonello De Rosa.

E tutta la rassegna Licurti si è colorata di Teatro con la T maiuscola.

De Rosa il teatro lo vive e lo fa vivere dal profondo delle viscere e carezza lo spettatore con scene e recitazione avvolgenti, ma nello stesso tempo lo scuote a cazzotti con la provocazione dei contenuti e dei gesti, impostati con una proposta scenica tanto incisiva da non poter essere rifiutata neppure da chi è abituato ad altri linguaggi più conformisticamente ortodossi, perché la creazione di empatica umanità è così vera da spingere piuttosto a chiedersi come e perché da certi tipi di emozioni finora ci si sia difesi, anziché nuotarci dentro come si fa con ogni onda di vita che ci accoglie.

Un teatro di pancia, quindi? Solo nella parte che gli compete. Antonello De Rosa non se lo perdonerebbe, perché quell’istinto che violento ruggisce nei suoi gesti e nelle sue parole per essere efficace deve comunque essere incanalato dalla ragione, che nel nostro caso sono le demiurgiche scelte del registache si fa attore e recita facendosi autore, in una triade che, concentrandosi in una sola persona, ha necessariamente bisogno di saldi fili da burattinaio.

Teatro tradizionale, allora? Solo per quel filo identitario che lo lega all’autore del testo di partenza ed alle radici di una storia di culture e di espressioni che radicate nei decenni e nei secoli. Il che non è poco. Ma su questo De Rosa innesta il vortice della sua creatività visiva ed interpretativa. Un vortice con punti ben fermi e decisi.

Innanzitutto, l’uso del corpo e della sessualità di genere.

Antonello De Rosa a teatro non ha un corpo, ma è un corpo. Come del resto siamo o dovremmo essere tutti, mentre invece siamo portati a distinguere l’io dal resto. E non diciamo che è un corpo perché egli si mostra con assoluta e pari disinvoltura sia con i vestiti sia senza: sarebbe troppo banale. Egli “è” un corpo perché ogni gesto, ogni parola, ogni movimento, ogni suono, ogni produzione dei sensi, ogni pensiero vivono insieme e comunicano insieme in armonica sinergia.

Non sentiamo il bisogno di concentrarci sul primo piano del volto, come nel teatro o nella ripresa tradizionale. Ma non veniamo neppure inondati da movimenti ridondanti e scomposti o dissociati dalla parola, come a volte succede nel teatro gestuale moderno.

Potremmo dire, scomponendo scherzosamente il buon Totò, che è il totale che fa la somma. Questo succede sia che Antonello rimanga statuariamente immobile con un manto rosso strascicato e lunghissimo, come in Tracce di mamma, sia che passeggi per la sala con una coloratissime vestaglie a polpaccio a spacchi intermittenti, come in Jennifer, sia che parli in slip o in sottoveste o mentre si trucca, sia che se ne stia seduto semplicemente a “diamonologare” col pubblico o al telefono o con un interlocutore più o meno presente in scena, come è avvenuto in tutte e due le pièce.

La magia del teatro e la sua abilità attoriale, farcita ora da silenzi sgomenti o perplessi (straordinario il lungo silenzio parlante della mamma sbigottita per la precoce gravidanza della figlia), ora da sguaiatezze espressive, ora da esplosioni emotive ora da calibrati spifferi di inferni e insicurezze interiori, fanno sì che parole, gesti, movimenti e suoni prima siano contorno ad un corpo composto di efebiche levigatezze, sorprendenti rotondità, barba da macho e voce politonale, e poi cedano il posto ad un insieme in cui quel corpo è prima di tutto persona, colta nella sua più deflagrante umanità.

Tutto questo mette in secondo piano il fatto che un uomo, come in Tracce di mamma, inglobi quattro parti di donne in una sola figura femminile (del resto il teatro è nato senza attori di sesso femminile…) ed in Jennifer crei, oltre le stesse intenzioni originarie dell’autore Ruccello, una figura che può essere indistintamente un travestito o una donna oppure un gay, perché è semplicemente una persona che vive ai margini in una società dove comunque si consumano delitti contro gli emarginati, una persona innamorata di un’altra persona, una persona sola che gioca come il gatto col topo con i morsi della solitudine.

Quanto detto in rapporto al corpo, vale anche per la scenografia e l’atmosfera, che nella regia di De Rosa fanno corpo con il corpo e l’anima dell’attore..

In entrambe emerge il colore rosso dell’energia vitale, rappresentato in Traccia di mamma dal lungo manto rosso occupato dai agli orli dai santini, in Jennifer dal vestito della donna allo specchio anima-tempo-passione. E prevalgono la penombra e la luce soffusa, non solo per creare la suggestione giusta per il feeling tra il pubblico tutt’intorno e la magica ed inquieta sinergiacorpo-animadell’attore-personaggio-persona, ma anche per evidenziare la dimensione mistero, la linea spesso indefinibile tra immaginazione e realtà, tra la consolazione del vagheggiamento e i pungenti schiaffi della concretezza.

Così in Traccia i sogni della donna si concentrano, in un poetico conflitto ideale-reale, sull’immaginazione dettata dai vagheggiamenti personali o dai media o dalle leggende religiose, e l’istinto della donna mamma si scontra ora con la prigione, mentale prima che fisica, del bigottistico convento di suore, ora con l’esplosione di sottile ferocia materna di una madre che non accetta il “disonore” della figlia-figliola incinta e la spinge più o meno consapevolmente al suicidio. E in Jennifer il desiderio di essere chiamata al telefono dalla persona amata si scontra con le risposte di voci non cercate eppure in quel momento amate pur di aprire una relazione almeno momentanea.

In effetti, il nodo centrale per De Rosa è l’inesauribile, e purtroppo inesausta ed inevasa, fame di affetto che ci avvolge e ci divora, tanto più quando le circostanze ci creano intorno dei muri.

In tutto questo il vocio della radio, lo squillo del telefono, le invisibili presenze circostanti, l’incontro comunque nevrotico che in Jennifer avviene con una vicina di casa ( che qui significativamente è donna, ma in Ruccello è anch’essa un travestito) sono il ronzio speculare del turbine che si agita nell’animo dei personaggi, che cercano, in entrambe le opere, una ragione per non togliersi la vita, e non sempre ci riescono.

In alcuni momenti, come si vede, con de Rosa entriamo nel cuore dell’anima del teatro moderno, quello che privilegia il significante sul significato o la destrutturazione del testo nella scrittura di scena vissuta dall’attore. Ma De Rosa non si lascia avvolgere dagli schemi. La scelta espressiva è dettata dal suo essere animale di scena ora tragicomico ora comitragico,

Ed è qui il suo fascino, perché in questa compiutezza egli diverte, coinvolge, commuove, emoziona. E fa esplodere la vita anche a contatto con la morte. Ed in quel riso fatto di pianto si sente personaggio-persona tra persone, ci fa sentire persone con una persona e ci fa piangere ridendo.

Ma le lacrime alla fine sono come tergicristalli, che puliscono gli occhi per vederci meglio … 

Le storie delle quattro figure sembrano ritagliare persone della vita quotidiana. Ruccello stesso, infatti, scrive: “Tendo molto a costruire per linguaggi anche i personaggi. Spesso individuo prima un modo di parlare e poi intorno a quello costruisco il personaggio vero e proprio. Alla fine mi accorgo di aver riprodotto delle stereotipie verbali che sono del mio ambiente, di mio padre, di mia cugina, pur cercando di evitare, come massimo dei mali, di far autobiografia a teatro. Finisco comunque per raccontare il mio ambiente”. L’ambiente, al quale il Commediografo si riferisce, è quello della provincia di Napoli, soprattutto di Castellammare di Stabia.
In realtà si tratta, a mio avviso, – e in questo adattamento ho inteso evidenziarlo – di figure “ingabbiate” in una realtà ad esse estranea. Ogni personaggio nasconde un disagio, un malessere, un’ossessione, un’ansia verso il mondo esterno, e ognuno di tali personaggi oscilla tra la consapevolezza e l’incoscienza, tra la ragione e la follia, tra il gioco e il mistero.
Qual è il mezzo per evadere da tale “estranea” realtà? E’ il sogno. Il sogno-desiderio di poter essere, di poter apparire e di potersi autorappresentare; di poter diventare una delle tante icone televisive o delle innumerevoli telenovelas verso cui si protende. E così realtà e finzione diventano un tutt’uno confondendo ed esagitando sempre di più gli animi.
A rimettere il tutto a posto sarà una sorta di “deus ex-machina” che, nel bene o nel male, scuoterà il vissuto dei vari personaggi.

Le storie delle quattro figure sembrano ritagliare persone della vita quotidiana. Ruccello stesso, infatti, scrive: “Tendo molto a costruire per linguaggi anche i personaggi. Spesso individuo prima un modo di parlare e poi intorno a quello costruisco il personaggio vero e proprio. Alla fine mi accorgo di aver riprodotto delle stereotipie verbali che sono del mio ambiente, di mio padre, di mia cugina, pur cercando di evitare, come massimo dei mali, di far autobiografia a teatro. Finisco comunque per raccontare il mio ambiente”. L’ambiente, al quale il Commediografo si riferisce, è quello della provincia di Napoli, soprattutto di Castellammare di Stabia.
In realtà si tratta, a mio avviso, – e in questo adattamento ho inteso evidenziarlo – di figure “ingabbiate” in una realtà ad esse estranea. Ogni personaggio nasconde un disagio, un malessere, un’ossessione, un’ansia verso il mondo esterno, e ognuno di tali personaggi oscilla tra la consapevolezza e l’incoscienza, tra la ragione e la follia, tra il gioco e il mistero.
Qual è il mezzo per evadere da tale “estranea” realtà? E’ il sogno. Il sogno-desiderio di poter essere, di poter apparire e di potersi autorappresentare; di poter diventare una delle tante icone televisive o delle innumerevoli telenovelas verso cui si protende. E così realtà e finzione diventano un tutt’uno confondendo ed esagitando sempre di più gli animi.
A rimettere il tutto a posto sarà una sorta di “deus ex-machina” che, nel bene o nel male, scuoterà il vissuto dei vari personaggi.Le storie delle quattro figure sembrano ritagliare persone della vita quotidiana. Ruccello stesso, infatti, scrive: “Tendo molto a costruire per linguaggi anche i personaggi. Spesso individuo prima un modo di parlare e poi intorno a quello costruisco il personaggio vero e proprio. Alla fine mi accorgo di aver riprodotto delle stereotipie verbali che sono del mio ambiente, di mio padre, di mia cugina, pur cercando di evitare, come massimo dei mali, di far autobiografia a teatro. Finisco comunque per raccontare il mio ambiente”. L’ambiente, al quale il Commediografo si riferisce, è quello della provincia di Napoli, soprattutto di Castellammare di Stabia.
In realtà si tratta, a mio avviso, – e in questo adattamento ho inteso evidenziarlo – di figure “ingabbiate” in una realtà ad esse estranea. Ogni personaggio nasconde un disagio, un malessere, un’ossessione, un’ansia verso il mondo esterno, e ognuno di tali personaggi oscilla tra la consapevolezza e l’incoscienza, tra la ragione e la follia, tra il gioco e il mistero.
Qual è il mezzo per evadere da tale “estranea” realtà? E’ il sogno. Il sogno-desiderio di poter essere, di poter apparire e di potersi autorappresentare; di poter diventare una delle tante icone televisive o delle innumerevoli telenovelas verso cui si protende. E così realtà e finzione diventano un tutt’uno confondendo ed esagitando sempre di più gli animi.
A rimettere il tutto a posto sarà una sorta di “deus ex-machina” che, nel bene o nel male, scuoterà il vissuto dei vari personaggi.