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Centoventi anni fa, esattamente il 24 maggio 1900, nasceva Eduardo De Filippo
In questi giorni di pandemia, il mio pensiero è andato a un’altra epidemia, quella del colera avutasi a Napoli verso la fine dell’estate del 1973. E allora ho “scavato” nel mio ampio archivio cartaceo preso dal desiderio/curiosità di rileggermi quanto aveva detto, fra gli altri, il grande Eduardo. Di seguito riporto alcuni suoi versi.
Alla cozza che fu imputata di causare il colera, Eduardo fa dire a sua discolpa:
…. “Ecco vedete…
Affunn’ ‘o mare ‘a còzzeca s’arrangia”
dicette l’imputata, “…e lo sapete…
là ssotto, presideè, pare l’inferno!
Chello c’arriva, ‘a còzzeca se mangia:
si arriva mmerda, arriva dall’esterno!”
Denuncia chiara sugli errori degli uomini. Infatti, Eduardo aggiunse pure: “I responsabili devono essere individuati bene e io desidero che la mia voce si unisca a quella dei lavoratori, sia nella protesta che nell’accusa”. Parole che, purtroppo, risuonano attualissime: di chi la colpa di tanto dolore e morte? Chi i responsabili dei tantissimi morti, specie, in Lombardia? Si sarebbero limitati i decessi se si fossero istituite altre zone rosse nella bergamasca, come la chiusura dei paesi di Alzano Lombardo e Nembro? Scelte sbagliate o operate lucidamente per interessi di “taluni”? Possiamo essere certi che, oggi, Eduardo, proporrebbe ancora quella sua “protesta/accusa”. Tra le poesie scritte in quei giorni, vi è anche una che ha per tema la morte, dal titolo “‘E bbalice”.
Il poeta non sa dove lo condurrà questo suo ultimo viaggio e quindi è indeciso cosa mettere nella valigia e così s’interroga:
….
Me porto appriesso ‘ fatte”…
o pure:
“Mo me porto ‘fessarie”…
Io me ce songo miso
c’’o pensiero,e
‘a verità
ve dico chiaro e ttunno,
aggio ditto:
“Mo faccio ‘ capa mia:
me voglio purtà ‘ e fatte all’auto munno,
e lasso ‘ntera tutt’’e fessarie”.
Lasciamo le fesserie agli uomini –ci dice Eduardo- ancora e sempre “maestro” pronto al sagace ammonimento tra l’amaro e il dolce. E un Eduardo che sempre ammaestra gli uomini anche dall’aldilà, è il tema di una mia breve poesia in vernacolo scritta di recente, mio modesto omaggio per il centoventesimo anno della sua nascita.
‘O presebbio
È sempe juorno e ‘o cielo è chieno ‘e stelle
e ‘a nuttata ccà nun vene maje.
E sotto, ‘o munno è comme a ‘nu presebbio
ca cumbatte, spanteca e se fa male assaje.
Nun s’è capito ancora comme se campa!
Antonio Donadio
(Inedito)
Trad. (Qui dove mi trovo ora) E’ sempre giorno e il cielo è pieno di stelle/e non giunge mai la notte./E sotto (sulla terra), il mondo appare come fosse un presepe/ che combatte, spasima e si fa molto male./ Non si è capito ancora come si deve vivere!
Coronavirus. La Voce dei Poeti: Réservé di Paolo Romano
Réservé
Come quando un cameriere
lascia cadere un bicchiere
tutti quei cristalli infranti
piccoli diamanti
per l’infinito stupore
d’essere vivi
alternativi
inseriti in un’antologia d’amore
che il calice ha richiamato
un brano di vetro soffiato
un bacio appena dato
un trionfo privato
apparecchiato al tavolo
della sera incommensurabile
fosse una vita cantabile
sarebbe una nostalgia
piena di melodia.
Ma ho perso tutto dalle tasche
rimangono pochi sorrisi
dimenticanze
cosa da nulla
il loro tutto confortante.
La voce tua distante.
Paolo Romano
Una poesia questa da leggersi tutta d’un fiato, senza pause, condotta saggiamente per mano dal ritmo cadenzato che lo avvolge godendo di un’interessante tessitura ritmica. Benché sia un’unica strofa, per comodità d’analisi, la suddividerei in due parti. La prima parte risulta costituita da ripetute rime tra baciate e alternate (A A B B A CC A D D D D – F F G G) che accompagnano melodicamente il lettore nella veloce “narrazione” che si va rappresentando di cui, come poi vedremo, il poeta è spettatore. La seconda parte è costituita da soli sei versi: il poeta, non racconta più l’accaduto ma il suo stato d’animo che, formalmente non richiede più l’ausilio di rime (assente nei seguenti quattro versi). Il suo è un prorompere duro, di dolorosa riflessione su quanto narrato prima: uno sfogo istantaneo, diretto. E’ solo negli ultimi due versi che ritorna la rima, baciata, ma crudele nella dolorosa contrapposizione di un “tutto confortante” ad una “voce tua distante”. La tristezza del canto è papabile e aggettivi “dolorosi” stanno a sottolinearlo: da cristalli infranti, a infinito stupore, a trionfo privato“ a “fosse una vita cantabile/sarebbe una nostalgia/ piena di melodia” e poi “pochi sorrisi”… “cosa da nulla”. In chiusa: “La voce tua distante”.
I terribili momenti che stiamo vivendo, la nostra scoperta fragilità di uomini diventa una poderosa immagine icastica nei versi di Paolo Romano: l’uomo, un vetro fragile che va rompersi in mille “cristalli infranti” quasi come “piccoli diamanti” che si appropriano, inaspettatamente, di una propria vita nascosta. Compressi a dar forma ad “un bicchiere” di vetro, nascono come cose a se stanti, autonome e nuove, continuità e diversità insieme. Il bicchiere, finito in frantumi, ha portato con sé un’intensa sconosciuta ma prevedibile storia, testimone d’incontri d’amore, di labbra sfiorate, di successi o sconfitte per un canto che “sarebbe una nostalgia/piena di melodia”. Sembra il momento della riflessione o forse del conto finale, dei ripensamenti o forse dei rimpianti… In questi giorni ognuno di noi è messo a nudo davanti alla sua stessa vita, non può barare, la sua vita distratta, fino ad ieri, da mille quotidianità potrebbe presentargli il conto finale. Il bicchiere si è rotto, è andato in mille frantumi… segni belli o tristi, vicende di vita inesorabilmente andate per sempre. Si ritrova solo, l’uomo, insieme a tanti altri uomini soli ma tutti legati da un unico destino: una quarantena che isola ma anche affratella, che fa ritrovare una forza e un vigore forse inaspettato. Ecco l’uomo che sente di possedere più nulla, ha “perso tutto dalle tasche” gli rimangono soltanto “pochi sorrisi/”dimenticanze/cosa da nulla”. Un’ infinta tristezza lo pervade. Nella sua solitudine, la mancanza di una voce “voce tua distante”, lo fa piombare nell’angoscia. E mai come in questi giorni si fa prorompente il bisogno di una voce, familiare, amica, o perfino lontana che arriva a noi tramite mezzi mediatici o da un vicino cortile, dall’ attiguo terrazzo cantando o urlando un messaggio di speranza, di coraggio. Riscoprire il valore balsamico della voce, di un’altra voce che non sia la nostra che serva per infondere coraggio a noi stessi e a quanto a loro volta aspettano la nostra voce in questi attoniti silenzi di una comune anima.
Paolo Romano, giornalista professionista, già in forza a Rai-Giubileo, è redattore di TDS Salerno. Collabora con il quotidiano “Il Giornale del Sud”. Ha realizzato documentari in India, Tunisia, Germania, Israele, Egitto, Giordania. Ha vinto il premio Giornalistico “Città di Salerno” (2006) e il Premio “ Media e Territorio”(2010). Tra le sue pubblicazioni: “Menti perdute” (Ripostes 1995); “Circo-stanze” (Ripostes 2000): “Il Dio della valigia” (Il grappolo 2004); “Mille quadri non dipinti” Pref.di Erri De Luca, 2017; “La storia di Salerno dalle origini ai giorni nostri” Editrice Typimedia,Roma, 2019. Una silloge di sue poesie è stata tradotta in inglese e pubblicata negli Stati Uniti su “Gradiva-Internazional Journal of Italian Poetry”.
Coronavirus. La Voce dei Poeti: Paolo Ruffilli
Questa mini antologia che raccoglie poesie inedite scritte sul Coronavirus, ospita questa volta una lirica del poeta Paolo Ruffilli.
Quarantena
In quarantena
non ha più misura,
il tempo, è sconfinato
e solo si riflette
il suo tracciato,
in ogni modo
qualunque sia mai stato,
sugli specchi di
ore e giorni
come ciò che cambia
mentre dura e ha
in sé la fine e
il suo principio
contro la parete
nel giro in cui si
mette e che ripete.
Paolo Ruffilli (inedito)
“Quarantena”: dettagliata, originale “panoramica d’interno” come specchio dello stato d’animo di chi vive in quarantena o serrato nell’assordante silenzio delle nostre case in questi terribili dolorosi giorni. Rufflli non è certamente nuovo all’indagine sull’uomo attraverso una poetica originale “lettura” delle cose che ci circondano, come testimonia anche il suo ultimo libro di liriche: Le cose del mondo, edito dalla Mondadori a gennaio di quest’anno. Una lirica perfettamente modulata dove l’enjambement dà il tempo al respiro, alla riflessione rapida e allo stesso penetrante, dalla forza quasi subliminale. Versi apparentemente liberi, ma dalla costruzione metrica cadenzata attraverso le rime qua e là con discrezione disseminate (sconfinato/ tracciato/ stato), qualche rima al mezzo (solo/modo) per un ritmo che dapprima quasi mozzato riprende poi, vigorosamente, al verso successivo per poi essere ancora negato, così fino alla fine per una definitiva semantizazione del contenuto di cui Ruffilli è maestro. Al centro, il Tempo da sempre nemico o amico, veloce o lentissimo nel dettare il ritmo del nostro vivere quotidiano, ora non è più quantificabile. Presuntuoso l’uomo che ha sempre creduto di essere il padrone del tempo, di gestirlo a suo piacimento; in questi giorni di pandemia il tempo si mostra in una nuova veste, “non ha più misura”. Eccolo che dagli specchi si riflette e ci riflette e ci controlla e dirige le ore e i giorni, ”sugli specchi di ore e giorni “ e sa essere principio e fine “e ha /in sé la fine e/il suo principio”. E’ lì il tempo tangibile “contro la parete” di una stanza che da giorni ci accoglie, ci difende, ma allo stesso tempo, ci serra prigionieri; e lì pronto a ricominciare ancora, un giorno dopo un altro, “nel giro in cui si /mette e che ripete”, pronto nella sua monotona conta incurante del serrato suo ospite che non sa quanto questa ”prigionia” possa aver fine.
Paolo Ruffilli (Rieti, 1949) è poeta, scrittore, saggista, traduttore. Tra i suoi testi di poesia citiamo: La Quercia delle gazze (Forum, 1972); Piccola colazione (Garzanti, 1987); Camera oscura (Garzanti, 1992); Le stanze del cielo, Marsilio, 2008); Affari di cuore (Einaudi, 2011) Variazioni sul tema (Aragno, 2014). Le cose del mondo, Lo Specchio Mondadori, 2020. Tra romanzi e saggi: Vita di Ippolito Nievo (Camunia, 1991) Vita, amori e meraviglie del signor Carlo Goldoni (Camunia, 1993); Preparativi per la partenza (Marsilio, 2003); L’isola e il sogno (Fazi, 2011). Ha tradotto, tra le altre, opere di Gibran; Tagore; Shakespeare; Milton; Mandel’štam; Kavafis, Vincitore d’importanti premi nazionali e internazionali, i suoi libri sono stati tradotti in molte lingue.
Coronavirus. La voce dei poeti: Maria Lenti
Passaggio
chi alza la lanterna
non l’ho saputo
non saprei
non ho memoria
non ho carta pretoria …
s’è incamminato
allampanato
s’è dileguato teso
stravolto in volto
davanti a tutti
balordo offeso
tra sassi e flutti
forse sdegnato
forse seccato
forse accecato
forse mai stato
Maria Lenti
Un sapiente gioco metrico fa di questa lirica, una graffiante litania. L’uso dell’anafora presente massicciamente nella prima strofa (non) e nella terza (forse) diventa il segno predominante con un armonico intreccio di rime che quasi giocano a rincorrersi (vv 4/5 memoria/pretoria); (vv 6/7 incamminato/allampanato); (vv 8/11 teso/offeso); (vv 10/12 tutti/flutti) con rima al mezzo (vv 9/11 stravolto/volto/balordo), per poi mostrasi, sfacciatamente, e con forza, nella terza e ultima strofa con la presenza di ben quattro rime baciate in “ato” (vv 13/14/15/16 sdegnato, seccato, accecato, stato). Intrigante cantilena che va a perdersi all’infinto con la cadenza del procedere, in conformità con il tema stesso della lirica, dell’andare oltre per una perfetta semantizzazione del significante ovvero forma e contenuto diventano tutt’uno.
Ogni certezza è smarrita, neppure la “memoria” ormai impotente, può più dar certezze. “Qualcuno” è partito, andato. Ma chi? Chi ha alzato la familiare amica“ lanterna”? Forse l’alter ego del poeta stesso? E chi potrà dire del suo andare, del suo “passaggio” oltre? Tutto è oscuro. L’uomo, eterno navigante, va, deve andare, è il suo destino, ma non sa dove e soprattutto dove arriverà. Tutto è nebuloso, le stelle tramontate per sempre, il cielo è nero, sembra la prima notte dell’esistenza, prima della luce. “L’uomo”, nonostante tutto, si è messo in cammino, ma il suo è un cammino doloroso “stravolto in volto”, non compreso dagli stessi uomini che pur dovrebbero essere i suoi compagni di viaggio, d’avventura, anzi è deriso nel suo desiderio di andare avanti, di procedere nonostante tutto. Il suo cammino è sempre più pieno di ostacoli: perché non ritorna indietro? Perché non rinuncia? Gli insulti si fanno sempre più pressanti, (“balordo offeso”), eppure non recede. Non ha certezze, ma sa che deve andare, di questo è convinto seppure il dubbio per l’esito finale lo attanagli, forse ciò che era luce, non è che inganno (“forse accecato”), forse il suo stesso andare non è che un inganno, forse il desiderio dal “passaggio” oltre, forse la sua stessa vita non è stata che un’illusione “forse mai stato”.
Questo nostro incedere in questi dolorosi giorni, dove nulla è sicuro se non la paura della sconfitta, perfino della morte, diventa l’emblema dell’uomo d’oggi che non si rassegna, che sa che deve andare avanti, porsi domande e cercare risposte, ma il momento dello scoramento, è dietro l’angolo pronto a sconfiggere la sua stessa missione che è missione di vita, nonostante tutto.
E’ questo il “passaggio” oltre che ci regala Maria Lenti, un andare oltre che è tutto intimo, di sferzante, a volte crudele introspezione, un andare contro un invisibile nemico con cui fare i conti ma nella certezza che è proprio dell’Uomo lottare per un fine che può tardare ma che deve pur esserci al termine del lungo, doloroso, incessante andare.
Maria Lenti, poeta, scrittrice, saggista, giornalista, vive a Urbino dov’è nata nel 1941. Già docente di lettere negli istituti superiori è stata deputata al Parlamento italiano per Rifondazione Comunista dal 1994 al 2001. Ha collaborato con quotidiani (l’Unità”, “Paese Sera”, “Brescia oggi”) e periodici con recensioni e saggi su poeti e artisti del Novecento. Numerose le sue pubblicazioni sia di poesia sia di narrativa e saggistica. Tra le più recenti, citiamo: Passi variati, Tracce 2003; Versi alfabetici Quattroventi,2005; Giardini d’aria Marte (Colonnella) 2011; Dentro il mutamento, antologia di poeti italiani contemporanei, Collana Nuovi / Fermenti Poesia, 2011; Effetto giorno. Scritti diversi (1993-2012) Ediland2012;Cartografie neodialettali. Poeti di Romagna e d’altri luoghi Pazzini, 2014; Ai piedi del faro La Vita Felice, 2016; “Certe piccole lune” , Fara editore, 2017; Elena, Ecuba e le altre, Arcipelago Itaca,2019.
Coronavirus. La voce dei poeti: Fabio Dainotti
“Non è più Italia”
“Non è più Italia”,
esclama Nadia, la cameriera ucraina alla finestra,
“è come da noi, quando la neve è alta
e la gente non esce di casa”.
Fabio Dainotti (inedito)
Un flash, come una foto dell’anima. Pochi versi ma fortemente suggestivi. Solo un poeta come Fabio Dainotti, uomo riservato e “di poche parole”, ma poeta noto e gratificato da premi e riconoscimenti, poteva regalarci questa istantanea che ben fotografa questi giorni che affliggono mortalmente l’uomo senza distinzione di aree geografiche o latitudini. Pochi versi, dicevo, ma che nascondono un ordito ritmico ben avvertibile: il secondo lungo verso impone al lettore la “durezza” di quanto si esclama, durezza data dall’uso ripetuto della sillaba ” r” + la vocale forte “a” :cameriera ucraina finestra contrapposta alla dolcezza degli ultimi versi nell’iterazione dell’uso della “e” (neve/ gente /esce) nonché assonanze al mezzo e in fine (alta/casa).
L’uomo nel suo essere animale, si scopre fragile fragile e in pochi istanti vede svanire la sua superiorità di genere, tutta la sua forza, quasi una sua presunta imbattibilità. Fragile fragile in balia di un nemico piccolo piccolo, tanto da non poter essere visto neppure a occhi nudi. Dainotti ci regala un frammento da veloce battuta teatrale (la mente corre al mai dimenticato Achille Campanile). Non sappiamo molto della “voce narrante” solo che trattasi di una donna: “Nadia, la cameriera ucraina” e sappiamo di altri due protagonisti: l’Italia e la neve. Sembra vederla la donna ucraina affacciarsi alla finestra di una qualsiasi città o paese italiano (oppure a una finestra mediatica) e sgomenta, ritrovare davanti ai suoi occhi il deserto in un silenzio innaturale che incombe con voce d’assordante terrore ” Non è più Italia”. Non è più “quell’Italia” che lei ha imparato a conoscere e amare, quell’Italia fatta di suoni, colori, profumi, quell’Italia che pullula di gente, di giovani rumorosi a volte, ma che sprizzano energia, vitalità, gioia di vivere. E’ come neve, questo virus, che tiene lontano gli uomini e le bestie. Come quella neve alta, inesorabile che nella lontana ucraina, tiene per mesi la gente chiusa in casa, proprio come noi in questi lunghi interminabili giorni di quarantena volontaria e doverosa per decreto governativo. E’ l’Italia, oggi, sommersa dalla “neve”. E’ l’ Italia a soffrire. Originale descrizione icastica: un elemento naturale come la neve a dar forma all’invisibile Covid-19 (naturale anch’esso o partorito dalla mente dell’uomo che più che a costruire, si adopera ad abbattere, a uccidere? ). Ma la neve sa essere gioiosa, incantevole nel suo “apparire”, sembrare un bianco regalo del cielo o forse degli angeli che si spogliano del loro candore, porta silenzio indescrivibile e incantevole luce nelle notti lunari, ma è passeggera, dopo poco “si dilegua” o ostinatamente permane per offrire di sé un altro aspetto: poltiglia grigia divenuta fango e melma. Che sia nella neve il senso vero del misterioso vivere?
Fabio Dainotti, nato a Pavia nel 1948, vive a Cava de’ Tirreni, poeta e critico letterario. Ex docente d’italiano e latino nei licei è presidente onorario della Lectura Dantis Metelliana e condirettore dell’annuario di poesia e teoria “Il pensiero poetante”. Dalle sue pubblicazioni, citiamo: L’araldo nello specchio, prefazione di Francesco D’Episcopo, Avagliano, 1996; La Ringhiera con nota di Vincenzo Guarracino, Book Editore, 1998; Sera, con un disegno di Salvatore Carbone, Pulcinoelefante, 1999; Ragazza Carla Cassiera a Milano con disegni di Valerio Gaeti, Signum, 2001; Selected poems, Gradiva, 2015; Lamento per Gina e altre poesie, prefazione di Sandro Gros-Pietro, Genesi Editrice, 2015. Ha collaborato e collabora a quotidiani e riviste culturali.