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CAVA DE’ TIRRENI (SA). Ricordando Gino Palumbo, l’”aluisinus avis columba”, come lo chiamava Gianni Brera

Quando nel 2016 ho dato alle stampe il mio saggio antologico su il Calcio nella Letteratura italiana (ndr, Antonio Donadio Calcio d’autore da Umberto Saba a Gianni Brera: il football degli scrittori. Postfazione di Alessandro Bonan, Editrice La Scuola 2016 pagg. 153 Euro 11,00) tra grandi poeti e scrittori (Saba, Pasolini, Gatto, Arpino, Guareschi, Eco, …) certamente alla “voce” grandi giornalisti sportivi, non poteva mancare il nome di Gino Palumbo.
E nel ricordarlo oggi a 100 anni dalla nascita e plaudendo al progetto del Comune di Cava, città di nascita di Gino, di volergli rendere doveroso omaggio, appena il Covid lo permetterà, con un premio giornalistico a lui intitolato, mi fa piacere riportare alcuni passi dal succitato saggio in cui, seppure brevemente, ne tratteggio l’inconfondibile stile sottolineando che la sua scrittura fu, per scelta, una scrittura lineare, chiara, godibilissima, popolare. Affermava, infatti: “Tutti devono capire tutto”. Si menziona il non facile rapporto umano e professionale che ebbe con Gianni Brera, altro grande del giornalismo sportivo fino a ricordare ciò che disse Palumbo in una delle sue ultime interviste su come il calcio moderno (fine anni 80) stesse mutando, e secondo lui, in peggio.

“ [ ]Gianni Brera (Il Giorno) / Gino Palumbo (La Gazzetta dello Sport). Due grandi giornalisti –agli antipodi su tutto- … vissero un forte, viscerale, confronto/scontro (“Per mero istinto mediterraneo scese subito in lizza contro il Giorno assumendone le tesi contrarie… Arrivò pure allo schiaffo forte e solenne…”). Brera, pavese, tifoso dell’Inter, era per il calcio maschio, virile, per un giornalismo che fosse sopratutto tecnico; Gino Palumbo, “napoletano”, ma nato a Cava de’Tirreni in provincia di Salerno, tifoso del Napoli, era per il calcio spettacolo, l’eleganza unita alla tecnica e alla correttezza del gesto atletico. Contro la vulgata secondo cui il giornalismo sportivo è giornalismo minore, non condivideva gli atteggiamenti di taluni intellettuali che snobbavano il gioco del calcio, ritenuto troppo popolare:

Il giornalismo sportivo ha saputo dialogare con la gente ne ha conquistato la fiducia; e’ scrittura chiara, diretta, incisiva: attrae i giovani. Spesso la Gazzetta fa da primo approccio alla lettura: e crea “clienti” anche per gli altri quotidiani “

Il calcio è un gioco adatto a ogni fisico, razza, temperamento, Chiunque può eccellere: alto, basso, robusto o mingherlino. E qualcuno riesce a diventare campione calciando soltanto con un piede. Poi c’è il fascino dell’imprevedibile: basta uno spostamento di pochi millimetri al momento dell’impatto tra scarpa e pallone per mandare il tiro in gol o sul palo. E spesso una rete fortuita decide la partita.”

Scrittura lineare, chiara, godibilissima, popolare per scelta: “Tutti devono capire tutto”, venata di visioni ammantate, a volte, di un certo romanticismo decadente.

Brera affermava:

Gino Palumbo (il mio Aluisinus Avis Columba) non era uno scrittore: aveva un suo lessico piano, uno stile pacato, senza voli. Si accontentava di esser chiaro; ma diceva cose tanto semplici da non dover proprio temere il contrario”.

Nell’ultima sua intervista, primavera del 1987, Palumbo traccia, senza nascondere un pizzico d’amarezza, il ritratto di uno sport ormai terreno di conquista di sofisticate riprese televisive. Quasi profeticamente presagisce l’odierno gioco del calcio, sempre più ipotecato dal sistema mediatico.

Le telecamere frugano tra i muscoli degli atleti, ritraggono i dettagli di ogni impresa, evidenziano capolavori tecnici un tempo impercettibili. Ogni mistero è svelato, e lo sport smarrisce le suggestioni poetiche, i campioni mostrano distacco professionale.”

Originalità di scrittura e differenzazioni tra mero pezzo giornalistico e inventio narrativa/poetica, finiscono, così, col fondersi.

CAVA DE’ TIRRENI (SA). Ricorre oggi il centenario della nascita di Gino Palumbo, giornalista sportivo

CAVA DE’ TIRRENI (SA). Centouno candeline per Anna Di Stasi, la nonna che a cento anni ha sconfitto il Covid

I brividi della sua avventura nel racconto della nipote Stefania Lamberti.


Anna Di Stasi (maritata Lamberti) è nata nel gennaio del 1920, in piena pandemia, quando infuriava la spagnola. Le prime poppate le ha fatte con uno slalom tra i virus. Poi, nel settembre 1943, ha dovuto fare un nuovo e ancora più pericoloso slalom tra le bombe. Viveva infatti a Santa Lucia quando, al momento dello sbarco, gli Alleati riempirono la vallata di granate. Immaginando un attacco e vedendo troppo esposta la sua casa, Anna cercò rifugio con la figlia Lina Lamberti (poi diventata professoressa di Lingua) in una casa adiacente, a suo dire più riparata, ma lì erano già in molti e obiettarono che una bambina in quella situazione avrebbe lordato i materassi. Dovette andare altrove… e le bombe caddero proprio su quella casa, uccidendo una decina di persone.

Quindi, nell’autunno del 2020, dopo che a gennaio aveva festeggiato alla grande il suo secolo di vita (vedi foto con il Sindaco e i figli Mimmo, Maria Cristina e Lina, il genero Giovanni Trezza, la nuora Maria Pia Scapolatiello), tra il 2 novembre e il 4 dicembre ha dovuto fare lo slalom più difficile. Ancora una pandemia, quella purtroppo ancora incombente del Covid 19. E una “bomba” diretta del Virus su di lei…

Ma ancora una volta, nonostante l’età, ce l’ha fatta. Grazie alla sua capacità di mantenersi sempre in buona salute, grazie al suo indomito spirito di combattente che l’ha accompagnata per tutto il suo secolo, ma grazie anche e soprattutto all’intervento e all’assistenza degli angeli custodi della Croce Rossa, Presidente Valentino Catino e coordinatrice Gabriella Pisapia in testa, ed all’amorosa presenza e assistenza dei nipoti Stefania Lamberti (figlia di suo figlio Mimmo e di Maria Pia Scapolatiello) e Gino Trezza (figlio proprio della Lina, scampata alle bombe, e di Giovanni Trezza), che, superando la paura del contagio, da avanguardia in campo della sua numerosa famiglia.

Anna Di Stasi ha vinto la sua battaglia ed è diventata un caso, un mirabile esempio di resistenza al flagello pandemico. Ora, pimpante come prima, è tornata a casa, ha trascorso il Natale con i suoi e si accinge a varcare la soglia dei centouno anni, proprio il giorno dell’Epifania. Ma la Befana il dono glielo ha già portato con la guarigione. Quel dono si chiama Solidarietà, Sacrificio, Amore… Vita.

Abbracciandola idealmente e corredando l’abbraccio con una carezza dal sapore metelliano, ripercorriamo con la nipote Stefania la sua vincente e “brividosa” odissea.

Quando e come è cominciata questa “battaglia”?

Tutto cominciò agli inizi di novembre, con una febbricola leggera, di pochissimo superiore ai trentasette gradi, ma tale da insospettirci, anche perché era accompagnata da un leggero affanno e dalla constatazione che Nonna era stata a contatto con una persona poi risultata positiva. Di questi tempi, non si sa mai. Pensammo allora di farle fare un’analisi sierologica, giusto per avere un’idea.

Quindi le faceste fare il prelievo.

Quindi cominciarono i grandi problemi. Bisognava trovare un’infermiere che glielo facesse. Ma in tempi di Covid anche le incombenze più semplici diventano complicate per gli ammalati. Se non è facile trovare un infermiere disposto a venire a casa a fare il prelievo e a seguire il paziente, figuriamoci un badante oppure un idraulico o un altro tipo di artigiano…

Allora cosa decideste?

Dopo vari tentativi andati a vuoto, non trovammo nessuno disposto a venire in casa, così alcuni di noi familiari ci rassegnammo a fare da assistenti, ben consapevoli di correre rischi pesanti per noi e per le nostre famiglie. Ma nonna non poteva certo essere lasciata sola.

Tu sei stata la prima a dovertene occupare?

Sì, è toccato a me ed è stata la svolta decisiva e fortunata. Un caso, un’intuizione ed un gran colpo di fortuna. Non per la mia persona, ma perché, mentre mi stavo recando da lei, dopo aver lasciato la mia famiglia come un soldato che va in guerra, poco prima della casa di Nonna mi sono trovata davanti alla sede della Croce Rossa. Ho deciso di fare l’ultimo tentativo. Sono entrata lì dentro ed ho chiesto aiuto.

E l’hai subito ricevuto?

Sì, ed è stata una vera e propria grazia. La Dea Fortuna ha voluto che in quel momento ci fosse il Presidente, Valentino Catino, il quale ha offerto immediata e massima attenzione, professionale e umana, e si è subito preparato per accompagnarmi a casa della Nonna.

Ma … ci siete andati così, a mani nude, senza precauzioni?

Assolutamente no! Abbiamo dovuto indossare le tute di copertura assoluta. Sembravamo proprio dei marziani! E non dovevamo proprio essere rassicuranti, perché la nonna quando ci ha visti si è assai impressionata e spaventata per la visione, perché odia le mascherate e le mascherine e perché intuiva quello che stava succedendo.

E allora avete fatto finalmente il tampone …

Sì, un tampone rapido, che purtroppo ha confermato tutti i sospetti. Il giorno dopo le è stato fatto anche il tampone molecolare, che ha appurato la positività. E allora, su suggerimento di Valentino e con le indicazioni telefoniche del medico di famiglia, abbiamo cominciato immediatamente la terapia Covid.

Chi materialmente seguiva da vicino le operazioni?

Abbiamo costituito una piccola squadra, che oltre Valentino e gli altri angeli della Croce Rossa comprendeva me e mio cugino Gino Trezza come parenti stretti. Ci siamo occupati di tutte le necessità, ovviamente con il sostegno delle ormai amiche “tute da marziani”.

Come è stato il decorso della malattia?

La prima settimana è continuata la febbricola ai livelli iniziali, ma poi la situazione stava precipitando, a partire dalla seconda settimana. Saturazione scesa a novanta, febbre salita fino a trentotto e mezzo, preoccupante pallore in volto, affanno montante, prostrazione fisica crescente. L’unica cosa che ci confortava era l’autonomia del respiro. Ma la paura e la preoccupazione erano tante.

E lei, come reagiva?

Con la forza e la capacità di sopportazione di sempre. E… trattenendo il respiro, non solo coi polmoni. Così come lo trattenevamo noi familiari, tutti idealmente presenti vicino a lei.

Non avete pensato di portarla in ospedale?

Per il protocollo degli ammalati di Covid, finché il respiro è autonomo, la terapia può essere domiciliare. Ma il periodo era quello del grande balzo in avanti della pandemia anche da noi in Campania. Gli ospedali erano saturi… e poi avevamo non infondati dubbi che in caso di necessità non sarebbe stato facile, soprattutto per una persona dell’età di Nonna, trovare posto in terapia intensiva.

Con molta delicatezza, stai dicendo che avete toccato con mano la durezza della situazione e le difficoltà nascenti dalle inadeguatezze delle strutture ufficiali

Proprio così, purtroppo. E non era solo un fattore di numeri, ma un grande dramma umano. Io stessa, nei lunghi periodi che trascorrevo alla Croce Rossa, ho avuto modo di ascoltare le telefonate di persone disperate per la difficoltà di ricevere assistenza oppure di trovare il posto per un ricovero. Mi vengono i brividi anche solo a pensarci…

Durante il decorso della malattia di nonna, non vi venivano brividi di paura, oltre che per le condizioni di lei, anche per voi stessi?

Quando sei un soldato e sei nel pieno di un combattimento, sai già che non esisterà un solo momento a rischio zero e non hai nemmeno il tempo mentale per pensare alle paure ed ai brividi.

Perché non ci sono o perché è tutto un brivido sottile diffuso minuto per minuto?

La seconda che hai detto. Ma riuscivamo a farcene condizionare il meno possibile, anche perché ci sentivamo accompagnati e protetti da angeli custodi che sapevano il fatto loro, come è stato dimostrato dl fatto che i volontari della Croce Rossa non hanno subito contagi al loro interno.Ed io, con tanti classici “pizzichi sulla pancia”, dovevo affrontare anche la lontananza da mio figlio e dai miei cari.

Tornando a nonna, quanto è durata la fase acuta della malattia?

Trentatré giorni, dal 2 novembre al 4 dicembre. Negli ultimi tempi la febbre è scesa, le forze sono ritornate, il colore del volto pure. Poi, attraverso l’USCA, i test di verifica. E sono arrivati un grande sospiro di sollievo e la grande liberazione.

Una gioia per tutti e per voi due “combattenti sul campo” il segno di una straordinaria battaglia di vita…

Che non si cancellerà mai… come non si cancellerà mai la gratitudine per Valentino, Gabriella e tutti gli altri angeli della Croce Rossa. Senza quel fortunato incontro del primo giorno, si sarebbe perso del tempo prezioso e… non credo che Nonna, per quanto forte e combattente pure lei, ce l’avrebbe fatta…Ma non si può descrivere l’emozione del “ritorno a casa” da vincitori…

Nel dire così, la voce di Stefania si incrina e lo sguardo si perde nel ricordo… e nel battito del cuore. E rimane in silenzio. Un silenzio che è parola d’Amore, parola della Vita.

CAVA DE’ TIRRENI (SA). Iniziate a Napoli le vaccinazioni anticovid. È Stefania De Santis la prima vaccinata metelliana

Nel giorno storico di apertura dei vaccini d’Europa, non conta il numero delle persone immunizzate, ma conta il segno, il simbolo della speranza di intravedere le prime luci dell’alba nel fondo della nottata. E allora assume un significato forte anche l’immagine della prima persona immunizzata in un territorio, o anche della prima di una collettività. Non si vince niente, ma solo l’onore, o il marchio bello del pioniere. Come essere i primi a portare la fiamma olimpica, o semplicemente esserne tra i portatori.

Per la comunità di Cava de’ Tirreni la prima staffetta è partita ed ha un nome: Stefania De Santis, 48 anni, tecnico di laboratorio biomedico presso l’Ospedale San Giovanni Bosco di Napoli. Tarantina di nascita e cavese di residenza, in passato è stata operatrice presso i Laboratori di analisi “Minerva” di Cava de’ Tirreni e “Milano” di Nocera. È stata assunta per concorso a tempo determinato ed ovviamente spera di essere “contagiata” dalla sicurezza del posto di lavoro e immunizzata dai rischi di disoccupazione.

Eccola all’Ospedale del Mare di Napoli, durante l’iniezione, e poi col Direttore dell’ASL Ciro Verdoliva, poco dopo la “santa puntura” e con lo stigma graditissimo della spilletta “Mi sono vaccinata”. E che milioni di noi la seguano al più presto…

“Se non fosse Natale stanotte” di Antonio Donadio

Il poeta e scrittore Antonio Donadio ha voluto dedicare al giornale e ai suoi lettori questa sua splendida poesia.

Auguri di Buon Natale a tutti.

Se non fosse Natale stanotte

chiederei chi accende lumi

chi fa risplendere stelle

su morti paesi

se non fosse Natale stanotte

mi stupirei di questo caldo silenzio

che avvolge senza nulla temere

né celie né sussurri

se non fosse Natale stanotte

chiederei di me non vecchio ancora

bambino per gioco

per caso o timore

se non fosse Natale stanotte

nulla saprei di dove mani

tornano ad incontrarsi

e volti fondersi a volti

se non fosse Natale stanotte

nulla saprei, solo in questa notte

stellata ancor di nuovo

e di perpetuo.

Antonio Donadio