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200 anni fa Giacomo Leopardi componeva L’INFINITO, capolavoro della poesia di tutti i tempi

Era il 1819 e il ventunenne Giacomo Leopardi “ci donava” quello che resta uno dei capolavori della letteratura mondiale di tutti i tempi: L’infinito. Per la precisione – da una nota dello stesso poeta- sembra essere stato scritto nell’autunno del 1819. Non posso, quindi, non fare un’eccezione e parlarne in questa mia rubrica che normalmente si occupa di poeti contemporanei.

L’infinito

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma, sedendo e mirando, interminati
spazi di lá da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Cosí tra questa
immensità s’annega il pensier mio;
e il naufragar m’è dolce in questo mare.

Leggiamo ciò che, l’anno dopo, Leopardi scrisse nel suo Zibaldone:

…il desiderio dell’infinito, perché allora in luogo della vista, lavora l’immaginazione ed il fantastico sottentra al reale. L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario…”

Di seguito un estratto dal mio saggio:“Ragione ed immaginazione nell’Infinito leopardiano” (1998) confluito, poi, parzialmente in “Un infinito commento: critici, filosofi e scrittori alla ricerca dell’infinito di Leopardi” a cura di Vincenzo Guarracino- Stamperia dell’arancio, (AP) 2001)

  • Ma sedendo e mirando…”.

Al di là dell’elegante consonanza, i due gerundi “sedendo e mirando” non possono rappresentate solo letteralmente un fatto meramente realistico cioè lo star seduti ed il guardare attentamente. Il sedere, poi, nelle condizioni reali in cui il poeta viene a trovarsi, cioè di fronte all’alta siepe, implicherebbe minore possibilità di vista che poi mal si concilierebbe con il mirare; questi due verbi indicano qualcosa d’altro. Il Leopardi, infatti, considera il verbo “sedeo” primitivo di “sedare”, mitigare, (vedasi Zibaldone, pp. 3020/21); e cosa c’è da mitigare se non l’affanno di conoscenza davanti ai propri limiti logico-razionali? Sedere, quindi, come mitigare l’impossibilità dell’uomo razionale nella conoscenza di ciò che travalica il reale, l’infinto; il mirare, quindi, non un guardare attentamente davanti a sé, ma uno sprofondare in sé, nel proprio animo, per poter passare al secondo momento, terreno dell’immaginazione: “ Io nel pensier mi fingo”. L’immaginazione come mezzo di conoscenza.

  • Di là da quella”.

Da cosa? Non credo, come comunemente viene affermato “di là dalla siepe”, perché non solo si resterebbe ancora nel campo della conoscenza reale, (seppure si considera la siepe come simbolo di limite alla conoscenza reale), ma “da tanta parte dell’ultimo orizzonte”. Infatti, non solo tale lettura interpretativa è consequenziale ai due distinti campi di conoscenza, quello reale e quello immaginato, ma soprattutto perché solo così si sconfina veramente verso il non finito, il non conosciuto; solo superando la barriera dell’ultimo orizzonte visibile (ovvero tutto ciò che è scientificamente conosciuto dall’uomo) si può iniziare a “conoscere con l’immaginazione”.

Originalissima ed elegantissima cartolina liberty del 1912 che oltre al ritratto del poeta e accenni biobibliografici, reca anche un vero mini libro di ben 15 paginette (Poesie Scelte) Casa Editrice A. Guarnieri Milano, 1912.
Proprietà: Archivio Bibliografico di Antonio Donadio