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SALERNO. Presentata a Palazzo Sant’Agostino la maxiraccolta di Vittorio Pesca

Cento racconti e poesie: coinvolgente memoria di un’identità personale e sociale.


Le luci e le ombre, il calore e i colori di una vita, col piacere di raccontare fatti e fattarielli e recuperare ricordi ed esaltare i valori che hanno fatto da stelle polari nella navigazione della vita.

Questo il filo rosso della serata di venerdì 24 maggio, svoltasi a Salerno presso il Salone Bottiglieri del palazzo Sant’Agostino, per la presentazione dell’ultimo libro di Vittorio Pesca, Cento racconti … e poesie. È l’ottavo volume di una collana personale in cui, conservando sempre il suo stile e la sua personalità, tra prose e poesie racconta ora le speranze, le delusioni, le fatiche e le conquiste della sua esperienza di emigrante, (Cuore di emigrante, Pietre nel cuore, Canti d’amore, Un’altra vita,), ora il viaggio dell’esistenza, il rapporto con la parte terminale della vita ed il contatto con l’oltre (Al di là, Nuvole del tempo, Amore di Dio).

Sono intervenuti, e in qualche caso hanno anche letto frammenti della raccolta, l’on. Guido Milanese, la Dott. Pasqualina Battipaki (Assessore dell’Amministrazione Provinciale), la prof. Elena Ostrica (Presidente del Centro Artisti Salernitani, che ha donato a Pesca la medaglia d’oro), il dott. Antonio Spiezia (Presidente dell’Associazione “Cavalieri di Carinzia”, che ha donato a Pesca un diploma di onorificenza), Gina e Marco Pesca, sorella e figlio di Vittorio, personalità del mondo dell’Arte e della Cultura come Maria Pina Cirillo, Patrizia De Mascellis, Anna Senese (in arte Marina Sole), Gerardina Russoniello, Giuseppe Lauriello, Antonio Russolillo, Rosanna e Teresa Rotolo, Pina Sozio, lo scrivente Franco Bruno Vitolo. L’accompagnamento musicale, molto efficace e particolarmente applaudito, è stato affidato al tastierista Vittorio Bonanno, esecutore di testi di musica classica, e al cantante chitarrista Mimmo di Salerno, chansonnier esperto della canzone napoletana e trascinante “posteggiatore” a voce piena. A condurre, come sempre e con la sapienza e la sagacia di sempre, l’avv. Michele Sessa.

Con quest’ultimo lavoro, tirando fuori dal cassetto racconti scritti nell’arco di una vita e non ancora pubblicati, Pesca ha raccolto dall’albero della memoria i frutti sostanziosi e saporiti della sua identità e della sua evoluzione esistenziale, che poi è il riflesso di una ben precisa dimensione sociale e storica: il Cilento, la civiltà contadina, l’emigrazione del Secondo Novecento, l’urbanizzazione, la scoperta del benessere, i problemi e i disvalori della cultura occidentale avanzata.

La struttura è in prosa, condita o alternata con poesia, la scrittura è “al caminetto”: chiara e semplice, ricca di connotazioni, coinvolgente e comunicativa. Funzionale e gradita novità, il contenuto di ogni singolo racconto è preannunciato da un breve corsivo che fa da richiamo, quasi da promo.

Le tematiche formalmente sono state divise in quattro capitoli: affetti familiari, reminiscenze, amicizia e amore, fede e amore di Dio. Di fatto,sono tutte convergenti con le opere e la vita stessa di Pesca con l’evocazione di personaggi e valori che sono il cemento della sua identità. le radici fortissime di Piano Vetrale e della sua famiglia, il legame d’acciaio con i suoi affetti, la necessità dell’amore e della solidarietà nei rapporti umani, il senso della religione e dei suoi riti, la tristezza nel vedere le ingiustizie, l’aridità sentimentale, gli egoismi, le violenze dell’uomo Caino.

Su tutto, la bellezza e la fatica della vita quotidiana, impersonate dalla figura del padre, il padre suo della disperazione e dell’amore, della solitudine e della notte sotto le stelle, della forza e della volontà di andare a vanti. E quel profumo di pane appena sfornato dalla madre non è solo un ricordo gioioso ma è il profumo stesso di quell’abbraccio materno che tanto e per troppo poco tempo lo ha riscaldato e che ancora gli manca.

L’amicizia, compagna del cuore, viene preannunciata nella prima sezione ed esplode nella terza, dove però a dominare è l’amore, anzi gli amori, che pure fanno capolino in tutti i luoghi e situazioni, perfino nella sezione religiosa. Con malcelato orgoglio Vittorio evoca tanti incontri e sogni d’incontro, con donne che colpivano la sua fantasia ed i suoi sensi ed a loro volta erano colpite dal suo fascino virile e dalla sua fresca malizia.

A dominare, e a lasciare un poetico retrogusto, è però il sottofondo della sua malinconia esistenziale, in parte legata anche agli errori che si commettono nella vita di ogni giorno e nella società. La vita, pur bellissima, è in fondo un doloroso passaggio: sono numerosi i personaggi costretti a scavalcare muri insidiosi, a patire pietre nel cuore, ad affrontare le pene di una malattia o di un lungo distacco da questo mondo. Ma per lui, quanto più forte è il dolore, tanto più forte è la necessità dell’amore… e l’importanza di riconoscere i valori essenziali.

Nel finale, infatti, in frammenti che sintetizzano la persona e lo scrittore, attraverso un “sogno dell’uomo” egli denuncia quanto sia tardivo a volte per tanti riconoscere solo a maturità conquistata i sacrifici fatti dai genitori, quanto sia ingiusto vergognarsi della povertà di famiglia, quanto sia alienante privilegiare i valori materiali su quelli morali: a cosa servono i soldi maledetti, senza l’amore? E non a caso in conclusione viene esaltata la grandezza della Pace: Non è utopia, dobbiamo agire e lottare, conquistarla col grido del pianto, con la caparbia e la forza del cuore.

La forza del cuore, appunto. È questo il frutto più succoso e saporito dell’albero Pesca. È questo il senso più profondo di questa raccolta-raccolto. E, come tutti i raccolti, sia anche questo cibo e seme di un futuro migliore.

Venticinque anni fa moriva Padre Turoldo. In “Luminoso vuoto” le sue ultime poesie i suoi ultimi scritti

[…] Descriver tutte le parti dolenti? Tutte le fasi di spasimo? Impossibile; e per di più imprevedibili. Sarà necessario abituarsi: come si faccia Dio solo lo sa. Non pensare, fingere di non pensare, di non sentire. Ad esempio, non è che mi sia assente la paura di impazzire. E’ così, ormai da mesi. Signore, abbi pietà di me”. Terribile e al tempo stesso meravigliosa testimonianza di cosa sia il dolore fisico, e non solo, in questo scritto ultimo di Padre Davide Maria Turoldo (morirà di cancro, pochi giorni dopo, nel febbraio del 1992). Raccolto e conservato gelosamente dall’amico e confratello padre Camillo de Piaz che così annota: “ Scritto una settimana prima di morire. Per se stesso”. E oggi pubblicato in un elegante volumetto (Davide Maria Turoldo Luminoso vuoto- Ultimi scritti Premessa, postfazione e antologia critica a cura di Giorgio Luzzi, Servitium Editrice (MI), 2016 pagine144, Euro 12,00). Si rende omaggio a Turoldo in occasione del centenario della nascita (1916/2016) e del venticinquesimo della scomparsa. Dirompenti questi ultimissimi suoi versi:

Gli altri scrivono di “altopiani”,
in forme stupende,
parlano con tutti…
sanno tutte le malizie della mente
le sante malizie,
sono dentro il grande fiume delle lettere,
del discorso umano:
e sono certo che hanno ragione.
Ma io non riesco, non riesco,
sono un maniaco di Dio.
E’ come se avessi la fronte un chiodo…

Turoldo, quindi, “maniaco di Dio”, ma non solo: “… egli era anche non molto meno, un maniaco del verso, del suono, del ritmo, una forte e assolutamente paritetica mano che batta sulla pelle del proprio tamburo a mandare segnali scivolanti, orizzontali, agli altri abitatori dell’altopiano a metterli in comunicazione tra loro”. (Luzzi). “Mettere in comunicazione gli abitatori dell’altopiano”, quasi un epitaffio dell’intera esistenza di quest’uomo, padre dei Servi di Maria e poeta. Ma chi è Padre Davide Maria Turoldo, nato in un paesino friulano (Coderno) il 22 novembre 1916 battezzato col nome di Giuseppe e per gli amici “Bepi il rosso” per via della fulva capigliatura? Un uomo robusto dagli occhi penetranti e dalla parola vigorosa, come pietra; combattivo, forte, pugnace. Originalissimo poeta, ma soprattutto prete “scomodo”: la scelta coraggiosa e difficile di prender parte personalmente alla Resistenza e poi scomodo per le sue improvvide (per taluni) omelie dal pulpito del Duomo della Milano degli anni ’60 che non gli risparmiò critiche feroci e attacchi violenti. Attacchi che non ebbero mai veramente fine. In Turoldo l’uomo e il poeta si fondono, sono tutt’uno. La sete dell’apostolato è sete costante, i suoi versi come semina, germinazione sicura. Non può, non sa trattenersi: è la luce della Fede che lo illumina verso un cammino che sa che non può essere altro che quello indicato dal Signore. Tutto ciò afferisce alla sfera teologico – metafisica: visione ed esperienza piena di Dio che non annienta la nostra personalità, ma la potenzia al grado supremo. Uomo tra gli uomini, sempre. Questo libro curato da Giorgio Luzzi non ci restituisce solo il Turoldo che conosciamo, attraverso un inedito mannello di “meditazioni liriche” e scritti in prosa oltre a un’ importante mini antologia di scritti critici a firma di importanti poeti e critici tra cui Ungaretti, Fortini, Giudici, Luzi, Porta, Zanzotto e ancora Bo, Guarracino, Ramat, ma anche un singolare, inaspettato scritto dal sapore di confessione. Turoldo, un mese prima di morire, sente il bisogno, l’urgenza di confessare, si potrebbe dire, “un peccato di gioventù”: aver dedicato una poesia a Mussolini. Si era nel 1934 e il poeta aveva solo diciotto anni. Scrive: “Ebbene, amici, cedo e rilascio per iscritto anche questo ricordo. Ce l’ho qui, da sempre, nella mente come una lucida ferita. Ero nato troppo presto per non subire; e il tempo della Libertà è venuto troppo tardi. Da ricordare che stavo ostaggio in seminario, e perciò non finirò mai di scusarmi e di confidare nel perdono. Per fortuna che, dopo, appena uscito e giunto a Milano, è cominciata subito l’altra storia: questa, che sto ancora vivendo. Dunque, anch’io ho cantato al Duce”. A seguire una breve lirica di diciassette versi. Turoldo chiede di essere perdonato. E Luzzi così scrive: “E’ la sua lucida ferita” tenuta segreta, almeno nel suo significato più profondo, per un’esistenza intera. […] …Vai in pace, David, noi tutti ti assolviamo, i tuoi versi all’”Uomo” sono persino belli”.

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